“Infinite Jest”: un grande romanzo americano

LETTERATURA, SCHIROPENSIERO

In un mese di ferie, di solito, leggo diversi libri. Ma quest’anno ne ho letto uno solo.
copertina infinite jestAvevo con me il monumentale “Infinite Jest” di David Foster Wallace e mi ha occupato tutti gli spazi che ho dedicato alla lettura dal 15 dicembre a qualche giorno fa. Non a caso, ho annotato sul mio diario di viaggio: “Leggere ‘Infinite Jest’ è stata un’esperienza”.

Il mio rapporto con Wallace è un po’ strano. Probabilmente per invidia, io sono molto diffidente nei confronti degli scrittori idolatrati. E poi, Wallace ha iniziato a pubblicare nei primi anni ’90, periodo nel quale io ero disconnesso dal panorama culturale, perchè pensavo che tutta la buona produzione di musica e letteratura fosse stata esaurita nel decennio dei miei 20 anni (1983-1993). Per dire, anche i Nirvana ho iniziato ad ascoltarli anni dopo la morte di Cobain.
E’ però successo che mi sono imbattuto in una serie di articoli riguardo alla pubblicazione postuma de “Il Re Pallido”, inclusa una intervista alla moglie dello scrittore, morto suicida nel settembre del 2008, ad appena 46 anni.
Ho comprato il libro e l’ho letto in pochi giorni, perchè mi ha letteralmente esaltato. Allora ho ordinato via Amazon “Infinite Jest”, che mi è arrivato giusto in tempo per la partenza per le ferie.

Tenersi “Infinite Jest” nel bagaglio a mano (visto che sarà, con le sue 1000 e passa pagine, 5 o 6 chili) dev’essere una scelta convinta. Così come imbarcarsi nella lettura di un libro (oltretutto, non nella propria lingua madre) che sembra non finire mai e ti costringe ad usare ben 2 segnalibro per zampettare alla bisogna dal testo principale alle note (che sono alla fine del libro e occupano un 150 pagine) nel modo migliore possibile.
Sia chiaro che questa storia delle note rende la lettura complessa. “Infinite Jest” andrebbe letto seduti alla scrivania, come si fa con i manuali. Va anche bene in aereo, che hai il tavolino. Ma a letto o in spiaggia, è un gran casino: i segnalibro scivolano via, perdi il segno e ti ritrovi a rileggere delle pagine.
Scrive non a caso il New York Review of books: “Wallace ha stipulato un patto astuto coi suoi lettori nel momento in cui ha parlato di duro lavoro insito nella lettura di ‘Infinite jest’. Tutti noi tendiamo a dare più valore a quel che ci costa di più, e arrivare al termine delle 1281 pagine del libro richiede un impiego di tempo e forze decisamente elevato, con Wallace che peraltro fa tutto il possibile per rallentare la lettura e impedirci di fruire il romanzo come un’opera di intrattenimento passivo. Ci si trova a compiere una specie di parodia di una tesi di laurea nel fare continuamente la spola tra il testo e le note, con il dizionario a portata di mano…”.

Mentre ero in Belize, ho conosciuto una studentessa del Minnesota che stava leggendo ‘Infinite Jest’ (“La mia professoressa ha detto che mi cambierà la vita”) in versione elettronica. Le ho chiesto come affrontava le note e lei ha risposto: “Mah, mi appare un numero sul quale clickare, tutto qui”.
Ho pensato che Wallace ha quindi scritto questo libro per poterne fruire in forma elettronica, ma ‘Infinite Jest’ è del 1996. Non esistevano nemmeno, i tablet e gli e-book in generale erano una roba più da ‘Star Trek’ che da vita reale.
Wallace stesso aveva detto che le note: “Sono un metodo per distruggere laDavid Foster Wallace linearità del testo, permettendo di mantenere una certa coesione narrativa”.
Forse perchè non sono un genio come Wallace, io non trovo la necessità di “distruggere la linearità del testo”. A me piace che quello che scrivo sia facilmente comprensibile e ho rinunciato da tempo ad “innovare”. Wallace, invece, apparentemente vuole dimostrare, innovando, che non c’era tanto bisogno di innovare e che quelli che qualcuno considera i suoi maestri, alla fine hanno fallito.
“Col tempo si capirà” scrive Jon Baskin, uno dei vari studiosi della produzione di Wallace “Che Wallace aveva meno in comune con Eggers e Franzen, che con Dostoevsky e Joyce“. Questo perchè Wallace puntava a “Far tornare la fiction ai problemi profondi della esperienza soggettiva”.

Jonathan Franzen era amico di Wallace e sui suoi libri ha scritto recensioni meravigliose. Jay Mc Inerney pure.
Fernanda Pivano sosteneva che: “Questo libro straordinario (‘Infinite Jest’) ha cambiato la struttura, il linguaggio e l’uso dell’ironia nella narrativa americana”.
Il lavoro sul linguaggio di Wallace è la cosa che trovo assolutamente straordinaria del libro. Molti scrittori prima di Wallace (a cominciare da Shakespeare) ci hanno abituati ad un uso della lingua che varia a seconda dei personaggi. Wallace va oltre: ci prepara addirittura, con pagine e pagine, al tipo di lingua che userà (lo slang della Boston urbana, ad esempio) e dà talmente via libera ai personaggi da intervenire come autore con correzioni nelle note (ad esempio, un personaggio dice ‘recircling’ invece di ‘recycling’ e l’autore ce lo fa sapere in una nota, con tanto di sic come commento).
Quando, sul finire del libro, Hal (lo possiamo definire il protagonista) si abbandona al flusso di coscienza, ci sono pagine che mi hanno ricordato così da vicino James Joyce che mi venivano le lacrime agli occhi per l’emozione, mentre leggevo.
Wallace regala pagine e pagine scritte così bene, così esteticamente belle, da togliere il fiato. Tipo queste parole: “His dreams late that night (…) seem to set him under a sort of sea, at terrific depths, the water all around him silent and dim and the same temperature he is”.

“Infinite Jest” è un titolo che rimanda ad Amleto (che, col teschio del buffone, in Inglese jester, di corte Yorick in mano declama:”..a fellow of infinite jest”), ma è un titolo scelto ad opera ultimata. Lo scrittore aveva lavorato al romanzo con il titolo: “A failed entertainment”.
C’è al centro della vicenda questo film (“Infinite Jest”) che dovrebbe essere un messaggio dell’autore al figlio e si rivela una micidiale fonte di dipendenza, perchè chi lo guarda non può fare a meno di continuare a guardarlo.
L’autore (James Incadenza, che i famigliari chiamano ‘Himself’) è morto suicida mettendo la testa in un forno a microonde (cosa che, tecnicamente, penso sia anche piuttosto complicata da fare…). Wallace ce lo descrive così: “Il suo era il lavoro di un brillante ottico, che però era un dilettante al riguardo di ogni forma di comunicazione”.
Il figlio Hal è una promessa del tennis che vive in una Accademia dove si pratica “Un buddismo a rovescio” per far crescere questi ragazzi, costretti a sveglie ad orari assurdi da un istruttore tedesco. Si descrive ad un certo punto così: “Per anni, mi ero visto in linea di massima verticale, ma mi sento più solido ora, che sono orizzontale”. Ad inizio libro (ma cronologicamente, si tratta della fine) non riesce più a comunicare con gli altri ed si esprime solo con suoni.

Wallace fa a pezzi con il suo libro la competitività che caratterizza la società americana e dipinge un quadro tristissimo delle varie dipendenze (dai programmi TV, dallo sport, dalle sostanze chimiche, dall’alcol…) di cui gli statunitensi moderni soffrono.
Scrive in un blog Ezio Tarantino: “‘Infinite Jest’ è il libro della dipendenza, è l’enciclopedia della dipendenza e di ogni tipo di nevrosi e/o disturbo della personalità (…) e alla fine, l’unica cosa sensata che mi sembra io possa fare è ricominciarlo da capo”.
Che è un’idea, perchè alla prima lettura forse si rischia di non apprezzare in pieno l’ambientazione in un futuro improbabile, nel quale Stati Uniti e Canada si sono fusi nella ONAN (Organization of North American Nations), nella quale vige il sistema metrico decimale ma il Quebec resta indipendentista (gli indipendentisti si fingono svizzeri di lingua francese con deliri tipo: “Da noi in Svizzera ci sono gli alci”) e si affida a “Les assassins des fauteuils rollents”, ovvero gli assassini in sedia a rotelle. In questo futuro, ci sono anche cose che fanno pensare al presente. Ad esempio, la ONAN si è venduta il calendario, nel senso che gli anni sono sponsorizzati (gran parte della vicenda si svolge in “The year of the Depend” intimo per incontinenti di Kimberly Clark, n.d.r. “Adult Undergarment”).

Wallace parla anche tanto di depressione. Non capisco chi, dopo la sua morte, scrisse qualcosa tipo: “E dire che di depressione non parlava mai”. Mah?!
“La depressione clinica è il grande squalo bianco del dolore”.
“E’ un livello di dolore psichico incompatibile con la vita umana come la conosciamo”.
“Il depresso che tenta di suicidarsi non lo fa perchè è senza speranza o perchè la morte gli sembra attraente. Fa la scelta che farebbe una persona intrappolata ad un piano alto in un incendio. Il suo terrore di cadere è lo stesso che provereste voi stando alla stessa finestra ad osservare il panorama. Ma quando le fiamme si avvicinano, buttarsi è il terrore minore”.
Non so se avete presente la scena delle persone che si lanciano dalle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001
Lo stesso Wallace, in una intevista, ha parlato di “Stomach level sadness” e uno dei suoi personaggi dice che essere depressi: “E’ come avere la nausea, solo non nello stomaco e basta ma in ogni parte del corpo”.

Nella conversazione con lo scrittore David Lipsky dal titolo “Although of course you end up becoming yourself”, David Foster Wallace diceva: “A un certo punto, ti metti a cercare qualcosa di importante nella tua vita. La domanda per me rimane: OK, ma cosa c’è dopo?”.
Nel settembre del 2008, deve avere deciso che “dopo” non c’era nulla che valesse la pena di essere vissuto. Ma quel “qualcosa di importante” è certamente “Infinite Jest”. Che magari non sarà quel Grande Romanzo Americano che gli autori provano a scrivere da sempre (un libro di Philip Roth si intitola proprio così e Jack Kerouak non faceva mistero di avere questa ambizione), ma che ancora non esiste. Ma di certo è UN grande romanzo. Non solo americano.