Alle Bahamas la mia immersione numero 100

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Il 9 gennaio del 2017 ho festeggiato la mia immersione numero 100. E’ una pietra miliare di un’avventura iniziata nel luglio del 1998 in Messico. In un villaggio vicino a Playa del Carmen ho ottenuto il brevetto open water della PADI (Professional Association of Diving Instructors) da un istruttore di Bergamo di nome Giancarlo.

Il giorno che mi sono immerso per la centesima volta non avevo idea che sarebbe stato il giorno della mia immersione numero 100. Anche perché ero troppo impegnato a gestire un enorme bagel che avrei dovuto imbottire con almeno 3 etti di salmone affumicato. E stavo pensando (anche perché il tutto era arricchito da cipolle, pepe e verdura) che non si presentava proprio come il classico pasto che viene consigliato prima di andare sott’acqua. Dopo essermi orrendamente sporcato le mani, ho scoperto che nel kit che ci era stato lasciato nel frigo del negozio di souvenir c’erano anche le posate di plastica.
“Mangia tranquillo” mi ha sorriso la ragazza della reception “Tanto sono sempre in ritardo…”.
Alle 8.10 avevamo appuntamento con il bus dello Stuart Cove’s Diving, con cui avevo dialogato per mesi via e-mail, salvo finalizzare la prenotazione poco prima di lasciare gli Stati Uniti. Di solito, a questi orari si può fare tranquillamente colazione in albergo, ma il Compass Point (in puro stile caraibico) il ristorante lo apre solo alle 8.
Comunque, con il suo quarto d’ora accademico di ritardo, il pulmino arriva. L’unico ciarliero a bordo è l’autista, che fa gli annunci come se fosse il Capitano di un aereo che sta per atterrare. Non è spiritosissimo, però ci prova. Soprattutto non deroga: se quando passa non siete ad attenderlo, tira dritto.
Quando si arriva al molo da cui si parte in immersione, si capisce già che ci si trova in una categoria diversa rispetto al centro di immersioni medio. Intanto lo Stuart Cove dispone di 7 barche, tutte perfettamente organizzate per ospitare i subacquei e per agevolare le loro operazioni  di discesa in acqua e risalita. Poi c’è tutto un andirivieni di ragazzi con le insegne delle staff e che si incaricheranno di portare il vostro materiale in barca. Sul bus avevamo già compilato un modulo. La prima sosta poi è al negozio di souvenir, dove si viene registrati a tutti gli effetti. Quindi ci si sposta al deposito materiali e quindi si sale in barca. Lo sottolineo, perché in molti Diving c’è il titolare che vi registra, vi tira fuori il materiale e poi vi chiede se lo aiutate a portarlo in barca.
Stuart Cove (lo Shark Wrangler di così tanti documentari;  da quest’anno è nella Hall of Fame dei subacquei) di suo non si vede. Ci accoglie invece Katie, una guida subacquea che ha posato anche da modella per il calendario con le Girls di Stuart Cove (si può comprare sia sul posto che on line, ma ho incassato un niet…) e che ostenta il suo bel bungy in fuori. Katie mi spiega che su questo pontile hanno girato il film Flipper. Poi la becco mentre dice al Capitano della barca: “Oggi era meglio rimanere a dormire”.

Con la visibilità di Sand Choates, non si poteva fotografare il barracuda meglio di così

Non è in effetti una bella giornata per immergersi. Il mare è mosso e la visibilità è quella che è. Il sito si chiama Sand Chute ed è una gola a circa 30 metri di profondità.
Contrariamente alle mie abitudini, ho una muta. Mi è stato spiegato che per la shark adventure del giorno dopo (che sarà al centro dell’articolo di venerdì 17 febbraio) la muta è obbligatoria e allora voglio farci l’abitudine subito. Mi metto alla cintura 15 libbre (un po’ meno di 7 chili e mezzo), ma sarebbero state il peso per l’immersione senza muta  e si rivelano poche. Così torno verso la barca e me ne metto altre 3 in una tasca del cosiddetto GAV (Giubbotto ad Assetto Variabile; si indossa con le bombole e si gonfia d’aria per galleggiare in superficie o trovare il punto di equilibrio, appunto assetto, sott’acqua). Sul fondo individuo il fotografo Nathan (grazie alle lucine del suo armamentario) e lo seguo. Arrivati all’imboccatura della gola, la visibilità migliora ma la corrente si fa notevole e gelida. Non me ne curo, perché sono troppo impegnato a inseguire un barracuda gigante per fotografarlo. Gli dovrei arrivare vicinissimo, perché siamo immersi in una specie di lattice che non aiuta le mie ambizioni. Qualche scatto lo faccio, poi il barracuda si stanca delle mie attenzioni.
Nathan (che ha le mani impegnate per sorreggere l’attrezzatura) non se la sente di proseguire. Katie l’abbiamo persa da tempo.
Nathan ci riporta verso la barca, dove troviamo Katie e una coppia di Inglesi che sembrano piuttosto arrabbiati. Quando risaliamo, la donna non a caso apostrofa Katie così: “It was a joke” (è stato uno scherzo). Nel video sotto, una immersione a Sand Chute.

Katie non si scompone e annuncia che ci trasferiamo a Nari Nari, il sito dove è stato girato Lo Squalo 4.
Alla domanda “perché si chiama Nari Nari”, Katie risponde pronta: “E’ il nome scientifico della eagle ray” in Italiano aquila di mare, una sorta di manta più piccola “E qui ci sono molte eagle ray”.
Katie ha naturalmente sparato a caso. L’aquila di mare (che è piuttosto comune anche nel Mar Adriatico) è definita myliobatis aquila.
E’ un’immersione non guidata in una laguna dove non si scende più di 10-12 metri. Katie precisa: “Se non sei sicuro della direzione, riemergi un attimo…comunque, sarò in acqua”.
L’acqua è calda e c’è buona visibilità. Si incontra subito l’aereo usato per la lavorazione de Lo Squalo 4 e poco oltre si trova una statua gigantesca, dono di un artista messicano e affondata per il divertimento dei sub. Vicino alle formazione coralline nuotano pesci pappagallo molto grandi e una miriade di pescetti multicolori che faccio fatica a catalogare. Si palesa poi una piccola tartaruga e mi metto a inseguirla. Lei mi tiene sotto controllo con lo sguardo e, se mi avvicino troppo, prova a tenermi a distanza con la zampa.
La tartaruga è decisamente l’animale più facile da fotografare in acqua, visto che ha una velocità relativa (e, con le pinne, pareggiabile) e che ogni tanto torna in superficie a respirare.  
Quando ormai siamo in prossimità della barca, ci imbattiamo in un’aquila di mare appoggiata sul fondo. Le arrivo così vicino che posso scrutarne nei dettagli l’occhio. Quando decide che sono troppo vicino, si rimette in movimento e ci saluta.
Era questa la mia immersione numero 100.

Qui poso a fianco dell’aereo usato durante le riprese di “Lo Squalo 4”

Si può dire che il primo sub della storia sia stato il greco Silla di Scione, che respirò sott’acqua tramite un giunco dopo essere sfuggito alla prigionia su una nave del Re persiano Serse Primo. Silla era un fenomeno, come atleta: per riunirsi alla Marina greca nuotò 15 chilometri.
E fare immersioni è stato riservato ai fenomeni per molti secoli. Nel 1500 vennero ideate le campane subacquee, che furono il preludio alla tecnologia che permetteva di rimanere sott’acqua ai palombari. Ma solo nella seconda metà del 1800 (grazie al francese Paul Bert) vennero studiati nel dettaglio gli effetti della pressione dell’acqua sul corpo e solo nel 1906 (grazie allo scozzese John Scott Hardane) venne individuata la cosiddetta malattia da decompressione. Oggi, per minimizzare il rischio, i sub effettuano durante la risalita una sosta a 5 metri di profondità.
Nel frattempo la Draeger di Lubecca (Germania) aveva ideato (1889) un antenato del moderno erogatore (l’aggeggio che ci permette di respirare sott’acqua).
Fu Angelo Belloni (18821957, Comandante della Regia Marina Italiana) a dare un impulso decisivo allo studio della miscela giusta da respirare sott’acqua.
Nel  1943 Jacques Cousteau (19101997) ed Emile Gagnan (19001979) idearono l’erogatore automatico, facendo di fatto nascere la disciplina delle immersioni a scopo ricreativo.
Furono proprio le esplorazioni di Cousteau (lo avevo nominato anche lo scorso anno, reduce dalle immersioni sui relitti a Truk) negli anni ’70 dello scorso secolo a dare grande popolarità a questa disciplina.

Prima di chiudere, una considerazione e una notizia (se così vogliamo dire).
In queste 2 decadi ho decisamente dovuto convivere con il fatto che le mie dita dei piedi sono strane e, se le pinne non sono di misura perfetta, tendono a scorticarsi.
Nel 1999, seguendo un corso dell’istruttore genovese Alain alle Maldive, ho avuto la qualifica di subacqueo advanced, che mi permette di immergervi senza guida fino a 40 metri di profondità.

17-CONTINUA