Classic 2006: l’Italia è eliminata con onore e il torneo prosegue in California

BASEBALL, SCHIROPENSIERO, World Baseball Classic 2006

Questa seconda parte delle Cartoline dal World Baseball Classic 2006 parte dall’eliminazione dell’Italia. Gli azzurri sono usciti dal torneo con onore e questo lo riconoscono tutti. Anche le crtitiche della stampa americana sono più mirate. Adesso si riconosce (e senza ironia) che i giocatori che l’Italia ha schierato hanno diritto di scendere in campo, ma ci si chiede: che futuro ha il baseball in Italia, se costruiscono la nazionale a questo modo? Io, naturalmente, provo a rispondere a modo mio.
La seconda Cartolina prende le mosse dalla prima puntata dell’ultima stagione de I Sopranos, uno dei miei telefilm preferiti di sempre. A dimostrazione del fatto che sono un ragazzo fortunato, riesco a vederla su HBO. Al ritorno in Italia, ordinerò il DVD con tutte le puntate.
La velenosa affermazione sulla IBAF che trovate in chiusura costò ad Aldo Notari l’ultima delle diverse arrabbiature che in vita sua gli ho provocato.
Nella foto di copertina trovate alla mia sinistra: lo slugger azzurro Valentino Pascucci, il responsabile materiale (di cui non ricordo il nome), Dan Bonanno della MLB e Marco Landi della FIBS

10 marzo- Per la FIBS il Classic è una scommessa già vinta

L’avventura nel Classic dell’Italia è finita. O meglio: l’avventura dell’Italia nel World Baseball Classic 2006 è finita, perchè c’è da augurarsi che la nostra nazionale sia in futuro ancora al via di questa, che è la più grande manifestazione di baseball che sia mai stata concepita.

Certo, non tutto del Classic è stato perfetto. Ma parliamo di un evento alla prima edizione e che, già dalla prima fase, ha suscitato entusiasmo nei 2 Continenti nei quali il baseball è sport numero uno. Le 40.000 persone di Tokyo per una sfida tra Corea e Giappone che non valeva più niente non possono passare inosservate, così come l’entusiasmo suscitato dall’evento nel Continente Americano. Ma ci sarà tempo per i bilanci generali.

Qui in Florida la delegazione italiana sta preparandosi a fare le valigie con l’amara consapevolezza di essersi guadagnata sul campo il rispetto dell’America, ma di dover ancora convivere con posizioni di dissenso proprio in Italia.
Ora, il dissenso è per me santo, quando è sano, costruttivo e motivato. Quando parte da presupposti sbagliati, invece è inutile. Nella migliore delle ipotesi, perché nella peggiore delle ipotesi è dannoso.
Il primo presupposto sbagliato è il famigerato “se tanto si deve perdere, vale la pena dare una soddisfazione ai nostri ragazzi etc etc”. Io sono del tutto favorevole a dare soddisfazione ai “nostri ragazzi”, ma mi permetto rispettosamente di far notare che lo sport agonistico è competizione. Chi lo pratica, sa benissimo di doversi misurare con un sistema che (secondo le più basilari regole del mondo occidentale) è ingiusto. Lo sport (di alto livello) infatti non concede pari opportunità. Ad esempio: non primeggiano a calcio coloro che non sono veloci (se non rarissimi casi di piedi d’oro), non approdano ai massimi livelli del basket le persone di bassa statura (se non rarissimi casi di fenomeni atletici) e non giocano a pallanuoto coloro che hanno paura dell’acqua.

Qui al Classic, gli organizzatori hanno messo in discussione tutto il nostro sistema: dall’organizzazione all’aspetto tecnico, dalla gestione del materiale alle relazioni pubbliche. Tutti, umilmente, ci siamo confrontati con una realtà che ci ha giudicati senza mezzi termini, prima di iniziare a darci fiducia.
Il mondo ci ha giudicati anche sulla nazionale che avevamo formato. Qui in America si sono mossi tutti, per verificare come mai questi ragazzi nati in America potevano rappresentare l’Italia. Si è iniziato con le battute di dubbio gusto (“Sono nato il Columbus Day, sono eleggibile per rappresentare l’Italia”) di USA Today e una certa ignoranza (si intenda il termine letteralmente) è emersa al riguardo della Legge Italiana sulla cittadinanza. Si è proseguito con i dubbi sollevati dall’Australia in sede ufficiale, rigettati con fermezza dalla MLB sulla base di una documentazione dettagliata presentata dalla FIBS, e si è arrivati ad un articolo estremamente lusinghiero scritto dal Wall Street Journal sul lavoro svolto dagli uffici federali.
In Italia tutto questo non ha sgombrato il campo dagli equivoci, anche per l’immane cantonata presa dalla Gazzetta dello Sport a dicembre. Il foglio rosa è un giornale storico, autorevole e sulle cui pagine sono orgoglioso di poter dire che ho svolto parte della mia formazione (chi di sport o altro deve scrivere, è bene che di sport, e molto altro, legga), ma sulla vicenda del Classic il vice direttore Arturi sbaglia su tutta la linea.
E’ evidente (e lo capisco pure) come per i super critici leggere da una penna importante come quella di Arturi un attacco tanto feroce sia stata una grande soddisfazione. Ma siamo ancora qui: i presupposti sono sbagliati.
Il programma della nazionale non si esaurisce con il Classic e, quel che più conta, tutti i giocatori che Matt Galante ha mandato in campo hanno diritto alla cittadinanza italiana. Vorrei sottolinearlo: siamo un paese che ha scelto di dare la possibilità di votare ai discendenti di Italiani che sono nati all’estero (a patto che siano rispettate le direttive della legge sulla cittadinanza), ma ci disturba vederli giocare con la maglia della nazionale di baseball. Scusatemi, ma non capisco che logica ci sia.

Tecnicamente il Classic dell’Italia ha detto che questa squadra è ancora lontana da potenze come il Venezuela e la Repubblica Dominicana, ma certamente meno di quanto io personalmente pensassi. Lo ha dimostrato la batosta che i nostri hanno inflitto all’Australia, che (non dimentichiamolo) detiene la medaglia d’argento Olimpica e che contro il Venezuela ha perso soltanto 2-0.
Io credo che il risultato del Classic dia ragione alle scelte fatte dalla FIBS. Ammetto anche che il futuro della nostra nazionale maggiore non può ridursi a selezionare i migliori giocatori italo americani, ma vorrei che si avesse il coraggio di ammettere che oggi non c’era alternativa.
Nell’era di internet, quando si puo’ seguire tutto il Classic per $9.95 da casa propria, è impossibile che non ci si renda conto della differenza di livello (di condizione atletica, forza mentale, velocità, potenza e ovviamente di tecnica) che c’è tra il giocatore europeo medio e quello di Grande Lega. Di questo si sono resi conto i nostri giocatori più rappresentativi, che non a caso hanno sposato in pieno il progetto Classic. A loro, amichevolmente e un po’ provocatoriamente, chiedo però di non accontentarsi di aver preso al volo una battuta di Albert Pujols, ma di mettere questa esperienza al servizio di tutto il movimento fin da subito. Oltre che, naturalmente, di lavorare per arrivare ad avere un peso tecnico diverso all’interno della rosa per il prossimo Classic. Che per inciso si giocherà nel 2009.

Una riflessione prima della buona notte: la Federazione Mondiale (IBAF) si renderà mai conto di quanti treni ha fatto perdere allo sviluppo del baseball, non essendo riuscita ad organizzarlo lei, un World Baseball Classic?

Mike Piazza mangia un piatto di pasta nello spogliatoio azzurro: è un’immagine che potrebbe sembrare preparata, ma invece è autentica. Ai fornelli c’era il Consigliere Federale Enzo Savasta

12 marzo-Se i Sopranos mangiano Sushi, l’Italia può giocare a baseball

Insomma, a USA Today non tornano i conti sul perchè in Italia si gioca a baseball. Un passo avanti rispetto ai primi commenti c’è stato, visto che l’unico quotidiano nazionale degli USA ha ammesso che tutti i giocatori italo americani della nostra nazionale avevano pieno diritto a rappresentare il nostro paese. Però giocare a baseball, secondo USA Today, non fa italiano. “Sarebbe un po’ come se vedessimo dei mafiosi pranzare a base
di Sushi” insomma. 
Detto e fatto: l’attesissima prima puntata della sesta (e pare ultima) stagione del telefilm I Sopranos (in onda su HBO, in Italia presumo tra qualche mese via satellite) vede Tony Soprano (l’attore James Gandolfini) e la moglie Carmela (Edi Falco) festeggiare l’avvio della nuova attività di lei a base di Sushi. “Costa caro” sostiene Tony “Ma almeno non è la solita cosa”. E’ evidentissimo l’intento simbolico dell’autore David Chase di mostrarci che questi italiani d’America sono come tutti gli altri americani e che le loro tradizioni restano un vezzo e, probabilmente, un mito lontano. La mala italo americana è americana, punto.
Come sempre accade, la puntata de I Sopranos è diventata materia di discussione prima ancora che andasse in onda. I giornali hanno dedicato pagine e pagine alla criminalità organizzata di derivazione italiana, approfittando anche dell’annullamento del processo a John Gotti, presunto boss della Famiglia Gambino. Per la cronaca, Gotti dichiara a tutti di essersi “ritirato” dalla Mafia. E’ un altro fatto epocale, visto che per un Good Fellow (un Uomo d’Onore) andare in pensione sarebbe assolutamente inconcepibile.
“I mafiosi italo americani” ha dichiarato un anonimo agente dell’FBI “Oggi non sono più come una volta”. E siamo tornati ai coniugi Soprano che mangiano Sushi.
Quando si scrive Italia in molta parte dell’America si legge pregiudizio. E il trattamento riservato da alcuni articolisti alla nostra nazionale non smentisce questa affermazione. Gli italiani sono quelli che imbrogliano (notate quanto il parallelo appaia facile?) e quindi avranno imbrogliato anche per mettere in regola i documenti di Piazza e Catalanotto e compagnia.
Visto che non c’è niente di più falso, ne possiamo parlare finché volete. Ma permettetemi di sottolineare come faccia male sapere che in Italia c’è chi alla fine questi pregiudizi quasi li benedice. E certamente, con determinati atteggiamenti, li incoraggia.

A giudicare dallo stupore dimostrato da chi non si aspettava di vedere l’Italia vincere almeno una partita, va dato ancor più credito agli azzurri per come hanno giocato in questo torneo.
“L’Italia non ha niente di cui vergognarsi” scrive il sito ufficiale della Major League come commento al girone D e si avventura addirittura in un parallelo (ardito, diciamolo) shakespeariano: “Piazza, come Re Lear, dice quel che si sente e non quel che è meglio dire”.
Parecchio credito all’unica vittoria dell’Italia lo ha dato l’Australia. I più critici si sono naturalmente già scordati del fatto che gli aussie hanno vinto la medaglia d’argento ad Atene ma, prima che si scordino anche di come hanno chiuso il torneo,  a lasciare un promemoria ci penso io: perdendo 2-0 e 6-4 contro Venezuela e Repubblica Dominicana, quindi con pieno onore.

L’Italia esce dal Classic senza sconfitte umilianti, al contrario della Cina (3 manifeste), del Sudafrica (che comunque è andato oltre le aspettative, ma contro gli Stati Uniti è durato solo 5 inning) e della stessa Cuba, che ha chiuso la prima fase con una sconfitta in 7 inning contro Portorico. A mia memoria, alla seleccion non era mai successo. Panama stesso ha perso per manifesta contro un’ottima Olanda, che ha messo in mostra un volto nuovo che fin d’ora preoccupa, se torniamo a pensare all’eterna sfida Continentale: il diciottennte antillano Shairon Martis, che contro Panama ha firmato una clamorosa no hit. Concludendo: al primo World Baseball Classic è stata bella Italia, lasciatemelo dire forte. E vi prego, seguitemi da quel di Anaheim, California. Ci sono ancora tantissime storie da raccontare.

A proposito di Martis, ecco la seconda previsione sbagliata di queste cartoline: nella finale dell’Europeo 2012 è salito sul monte contro gli azzurri e il nostro line up ha segnato contro di lui i punti che hanno scavato il solco che l’Olanda non è più riuscita a colmare.
La vena nostalgica con cui si apre questo secondo articolo mi obbliga a ricordarvi che a quella mia prima visita in California è collegato il romanzo Non vuol dire dimenticare, che potete acquistare su Amazon partendo dal link sulla home page del sito.

Per la comunità messicana della California del sud, la presenza dei tricolori ad Anaheim è stata un evento

14 marzo- Sognando California

La prima volta che sono venuto in California ero molto giovane e mi sentivo molto solo, pur essendo sempre assieme a qualcuno. Questo era vero al punto che al ritorno dalla California ho elaborato una teoria di questo genere: “Essere soli non vuol dire non essere in compagnia, ma non essere in compagnia di una determinata persona”. Tutt’ora mi sembra un pensiero abbastanza intelligente e, per uno sviluppo di questa idea indipendente dall’influenza schiroliana, consiglio l’ascolto della canzone dei Cure (anno 1979, credo) 10.15 on a Saturday night. Qualcuno, sto parlando della canzone, è in casa da solo un sabato sera alle 10.15 in attesa di una telefonata che non arriverà.

Benché mi sentissi solo ed infelice, di certo quella volta avevo meno freddo. Ieri sera allo stadio degli Angels si gelava e il mio abbigliamento al riguardo era del tutto inadeguato, rispetto ai nativi con cuffia e guanti, che evidentemente hanno smesso prima del sottoscritto di credere ai telefilm ambientati nella California del sud, nei quali sono tutti in maniche corte, se non (quando ne vale la pena) a torso nudo o in bikini.
C’era freddo, ma valeva la pena di esserci perché è stata veramente una grandissima festa di sport. Per CoreaMessico c’erano più di 42.000 persone, quasi la capienza di un Angels Stadium sempre gigantesco, nonostante i posti a sedere siano stati ridotti alla fine degli anni ’90, da quando non è stato più necessario condividere lo stadio con il football. Penso fossero quasi tutti emigranti, perché messicani e coreani rappresentano una parte certamente rilevante della popolazione di questo Stato. E in tribuna si sentiva, perché l’entusiasmo che il pubblico trasmetteva durante la partita era davvero contagioso. Devo ammettere che, pur semi assiderato e privo di computer (cosa che per me è quasi come essere nudo…), mi sono addirittura commosso quando sul tabellone luminoso è apparso il volto di un ragazzo evidentemente coreano e che brandiva una bandiera tricolore del Messico. I 42.000 sono esplosi in un boato che dava i brividi.

Come ricorda l’Ufficio Stampa del Classic, l’Angels Stadium è “un posto molto grande”. Io, in effetti, faccio ancora una certa fatica ad orientarmi, perché devo passare dal secondo piano (sala stampa) al terzo (sala conferenze) al quarto (posto stampa assegnatomi). Durante Stati UnitiGiappone ero tanto impegnato in tutti questi spostamenti che del fuoricampo di Chipper Jones ho visto solo la traiettoria. Ho però fatto decisamente in tempo a percepire l’entusiasmo del pubblico americano, carico come certamente non lo avevo mai visto ad una partita di baseball della loro nazionale. A un certo punto si è alzato un imperioso Iu-es-ei, davvero di grande effetto. Per la cronaca, al pomeriggio c’erano poco più di 32.000 persone. Questo significa che in 2 gare della seconda fase il Classic ha fatto registrare quasi 75.000 paganti. Alla faccia di chi diceva che un torneo  in questo periodo sarebbe passato inosservato. In sala stampa i giornalisti americani parlavano di post season atmosphere. Gli crederemo, non avendo esperienza diretta.
Il Classic è un successo commerciale, oltre che di pubblico. A parte le vendite allo stadio, la Mastercard (uno degli sponsor) ha addirittura varato uno spot pubblicitario in cui immagini girate in vari luoghi del mondo con il baseball come tema centrale spiegano l’ormai celeberrimo slogan: “Ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard”.
Come per molti degli azzurri, anche per il sottoscritto con la partenza dalla Florida sono finiti i tempi da Big Leaguer. Dal lussuosissimo Ritz Carlton di Orlando mi sono trasferito ad un simpatico motel chiamato Little Boy Blue, a poche miglia da Disneyland e a poche miglia anche dallo stadio. In tribuna stampa non sono più Visiting PR (dietro casa base), bensì altra stampa, là verso l’esterno destro.
Questa parte della California (siamo ad un‘ora da Hollywood, ma ad almeno 40 minuti anche dall’Oceano) ricorda tutto sommato la Florida centrale. E’ tutto un susseguirsi di autostrade e zone di negozi, che rappresentano vere e proprie oasi nel traffico opprimente di queste parti.
Col gestore del motel sono già amicissimo. L’ho svegliato in piena notte al mio arrivo, lui ha ricambiato la cortesia spostandomi in una nuova stanza subito dopo che avevo riempito i cassetti.
“Questa non è LA”, continua a dirmi. Non faccio troppa fatica a crederci.

Chiudo con un pensiero a colui che, protetto da un nickname, su un Forum scrisse: “Per te i giorni da Big Leaguer non sono mai cominciati”.
Con la terza parte, cioè con il prossimo articolo, si chiuderanno le Cartoline del
2006.

2-CONTINUA