Della mia vocazione di radio e tele cronista

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Stavo passeggiando nei dintorni di casa, quando il mio sguardo è stato attirato da 2 bambini che giocavano a calcio nel piccolo parco di quartiere. Era un uno contro uno tra un ragazzino nettamente più alto, quindi molto più veloce, è uno più piccolo (oltre che di statura, anche di età) che faceva fatica a opporsi. Ma in compenso, commentava le azioni ad alta voce. “Non resiste alla squadra avversaria” diceva, ogni volta che veniva superato.

La prima radio cronaca che ho fatto aveva come destinatario me stesso. E, indirettamente, il sarto che aveva il laboratorio adiacente l’appartamento dove abitavo con i miei genitori in via Duomo 7 nel 1970 o ’71. E che attese il rientro di mio padre dal lavoro per accennare una protesta, salvo poi ammettere che, uscito il cliente che stava provando, aveva molto riso sull’enfasi che mettevo nella telecronaca della mia partita immaginaria.
Rispetto al ragazzino del parco, io avevo anche la finezza di aggiungere l’effetto stadio e di mimare le proteste (con il labbiale, era a quel modo che vedevo quelle dei calciatori in televisione). La mia frase preferita era “Gli uomini di Berti”, dove Berti era il mio Maestro delle elementari (Elio Berti, non ho idea se è ancora vivo) e gli uomini eravamo io e i miei compagni di classe, che nel mio immaginario eravamo una squadra. Le partite che giocavo da solo erano sempre piuttosto drammatiche, perchè ispirate a Italia-Germania 4-3 dei Mondiali giocati nel 1970 in Messico.
Non ero comunque un bambino autistico, se è questo che temete. Giocavo anche a calcio per strada. Prima in piazza Duomo, da dove io e i miei amici eravamo stati cacciati dopo che diversi sacerdoti diretti al Vescovado erano stati colpiti da terrificanti pallonate. Giocando portiere (perchè eravamo calciatori poliedrici), mi ero anche fratturato un dito. Il campo successivo, che ha resistito fin quando il calcio da strada non venne soppiantato (diciamo, 1976) dal baseball da strada, fu via Sant’Anna, dietro la Cattedrale. Era un campo fantastico, con le porte (i portoni d’ingresso di 2 stabili) dallo stesso lato della strada. Avevamo iniziato in verità con le porte una di fronte all’altra, ma una era la saracinesca di un garage e a ogni gol venivano (causa il rumore) chiamati i vigili.
La mia tecnica di radiocronaca nel frattempo si era particolarmente affinata. Il giovane (classe 1938, era meno che quarantenne) Bruno Pizzul era il mio modello da quando avevo visto una sua telecronaca di Parma-Avellino, entrambe neo promosse in serie ‘B’ e Pizzul aveva iniziato dicendo “La sfida si gioca in terra emiliana”.
Smesso di giocare in strada per raggiunti limiti di età, ho comunque continuato a inventarmi partite di cui ero radiotelecronista fin quando non mi è stata data l’opportunità di farne una per davvero.

A 20 anni, si ha un sacco di paura di non sapere cosa fare. E’ l’unica cosa brutta che mi ricordo della mia gioventù (nota bene: mettere nella stessa frase le parole “ricordo” e “gioventù” è doloroso, perchè io non mi sento affatto vecchio…): questa ansia che il week end finisse,Al microfono di Onda Emilia in modo da non dover più dimostrare che non avevo nulla da fare. Così, quando in una domenica del luglio del 1983 il mio amico Gian Paolo Pelosi mi chiamò per chiedermi di accompagnarlo in radio, accolsi quasi con sollievo.
A Radio Emilia c’erano solo lui e un DJ (e futuro editore di radio e siti internet) Marco Gabbi. Presto si unì Gianluca Conversi, cronista di baseball come Pelosi.
Scoprii velocemente che Pelosi e Conversi tendevano a litigare tra di loro per le cose più banali e il commento pomeridiano al campionato di baseball non sarebbe mai iniziato perchè i 2 stavano, appunto, litigando. Entrambi avrebbero voluto impersonare il ruolo del conduttore, nessuno quello del commentatore tecnico. Così a Conversi venne l’idea di promuovere entrambi al ruolo di conduttore e fare di me l’esperto. Cosa volete che fosse, per me: era dal 1970 che facevo telecronache, un commento non era certo un problema.
Fui promosso a pieni voti. Difficile che l’audience di Radio Emilia alle 2 del pomeriggio di luglio fosse altissima, ma almeno mia nonna Bianca ascoltava. E disse: “Hai parlato bene”. Frase di cui mi sono sempre dimenticato di chiederlo conto, ma che un po’ mi preoccupava. Per lei, “parlare bene” erano gli interventi a Tribuna Elettorale del Segretario del PLI Malagodi (che ha lasciato in eredità alla nostra generazione le Pensioni d’Oro dei superburocrati, da lui varate in qualità di Ministro del Tesoro negli anni ’70…), tra i quali il celebre: “Si insulta l’onore del popolo siciliano, sostenendo l’esistenza di un’organizzazione criminale chiamata mafia”.
Arturo Dalla Tana (al quale non sarò mai grato abbastanza; oggi è Notaio) mi fece notare che la mia dizione era un po’ troppo parmigiana. Inutile dire che non presi bene il rilievo, ma fui comunque abbastanza umile da registrarmi e riascoltarmi, in modo da migliorarmi.

Dedicherò prima o poi una sezione di questo sito ai miei anni alla radio. Ho un sacco di appunti e un’ottima memoria e quella parte della mia vita (privata e professionale) non vorrei liquidarla in poche righe. Anche perchè qui voglio andare a parare da un’altra parte.
Nel 1987 ero la prima voce di radio Onda Emilia (che non è la stessa cosa, rispetto a Radio Emilia). Non un risultato gloriosissimo, visto che non prendevo una lira. Ma mi sentivo bravo, anche se (per dire tutta la verità) la radio era al momento per me un surrogato rispetto alla mia vera ambizione. Scrivevo su una mia agenda-diario: “Devo giocare le mie carte, tutte e fino in fondo, per fare da professionista quello che ho sempre sognato. Cioè scrivere. Se non ci riuscirò, sarà solo perchè non ne avevo le capacità”.
Nel frattempo, stavo sveglio la notte per ascoltare le partite di baseball di Major League sulla radio delle Forze Armate americane. Di giorno frequentavo la Facoltà di Economia e Commercio, ma il mio vero studio superiore erano le radiocronache degli Yankees e dei Red Sox, che mi tenevano compagnia alla notte (ero un bravo ragazzo, solo il venerdì e il sabato).
Per il 1988, i casi della vita mi avevano portato a lavorare a tempo pieno a Onda Emilia e a provare le prime delusioni della mia vita professionale. Come detto, mi ritenevo bravo ed ero convinto che questo bastasse. Ma non avevo fatto i conti con tutta una serie di variabili (chi si crede bravo come te, chi sa di essere meno bravo di te e per questo ti vuole danneggiare…) che avrebbero potuto condizionarmi proprio nel mio ambiente e con il fatto che tra essere bravi e essere accolti nel mondo dei grandi ci sono diversi passaggi non automatici. La mia frustrazione si riassume in questa frase, ricavata sempre da una mitica agendina: “Nell’ambiente del baseball sono entrato troppo presto. Uno come me doveva arrivare ad un livello di professionismo, alla RAI. Non mi cagano, ma gliela farò vedere”.

Mi fa un po’ di tenerezza, il me stesso ventenne. Ma mi piace anche rileggere in me tutta questa determinazione. E, ammetto, provo anche un certo orgoglio nel verificare che, alla fine (un 20 anni dopo aver preso la penna in mano per fissare i miei pensieri su un’agendina) alla RAI ci sono arrivato sul serio.
Istintivamente, oggi provo rabbia verso chi non rispetta questo mio percorso e prova pubblicamente a sminuire il lavoro che si fa (non io solo) per portare il baseball in RAI e renderlo il più fruibile possibile. Sia chiaro: prendo in considerazione di non piacere, so che il prodotto è migliorabile, ma sono convinto che anche nel dissenso e nella critica il rispetto non dovrebbe mai venire meno.
Non avrei mai detto che un giorno sarei stato io, uno di quelli che avrebbero avuto in mano il potere per facilitare o meno l’accesso a questa professione di quelli che corrispondono a come ero io nel 1988. Di quei ventenni che non hanno santi in paradiso o parenti influenti.

Per quel che può servire, sappiate che io non tratterò mai nessuno come io venni trattato da chi mi fece scrivere: “Gliela farò vedere”. Quello che ho imparato, mi piacerebbe trasmetterlo. Ma solo a chi dimostra di avere la voglia di imparare che avevo io.
Quel che spero in conclusione, è di sapermi accorgere di quando un allievo avrà messo la freccia e sarà pronto a superarmi.