Dopo la NBA, pronti per andare da San Antonio a Houston

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Sono stato fermo abbastanza a San Antonio. Mi concedo giusto il gusto di vedere una partita della NBA, perché è’ giunto il momento di rimettermi in viaggio

Riporto integralmente dai miei appunti: “L’AT&T Center di San Antonio è qualche decennio nel futuro. Non so se definirmi esaltato per l’esperienza o depresso per la consapevolezza che una cosa del genere in Italia non la vedrò mai…”.
Ho assistito alla partita di regular season NBA (National Basketball Association) tra Spurs di San Antonio e Suns di Phoenix, seduto in un posto a metà del secondo livello di un palazzo dello sport che tiene 18.000 persone e che era piuttosto pieno, pur non essendo esaurito. Sono comodi, ma non sono certo i posti migliori. Anche perché ci si trova a contatto con la scala e la gente va e viene in continuazione per comprare da mangiare e da bere. Costano comunque (prevendita compresa) 80 dollari l’uno.  Ovviamente, ce ne sono di più economici (a comprarli prima…), ma soprattutto ce ne sono di più costosi. Si arriva fino ai 1000 (dico sul serio: mille) dollari a posto per il settore VIP, a ridosso del campo.
I prezzi degli stand in concessione sono veramente indecorosi. Spendo 24 dollari per 2 birre e un sacchetto di noccioline, più di quello che era costata la cena nel Lulu’s Bakery and Cafè adiacente il Motel 6, regno degli afro americani obesi (sia gli avventori che i camerieri). Visto che abbiamo dovuto aspettare non poco (con tanto di arterio che mi stava montando all’idea di arrivare in ritardo alla partita), ci siamo persi  a osservare gli enormi cinnamon bread che arrivavano a tavola. Dev’essere una tradizione, perché tutti quelli che li ordinano li fotografano con il cellulare. Si tratta della versione statunitense del dolce svedese kanelbulle: una specie di panettone alla cannella ricoperto di una glassa orrenda. Cercando la ricetta su Google, ho scoperto che si può stimare il suo apporto in 460 calorie per 100 grammi. E i bread che ci passano davanti devono essere 2 o 3 chili. Lulu’s non può ottenere segnalazioni dalla Guida Baldhead.
La partita la vincono gli Spurs (117-98) e resto deluso, perché sarebbero bastati un paio di tiri a segno di Phoenix in più per vedere entrambe le squadre  superare i 100 punti. Riconosco in campo Ginobili, che anni fa giocava per la Virtus Bologna. Ma lo scopo degli organizzatori sembra essere quello di evitare che il pubblico si concentri troppo sulla partita. C’è un tabellone mega galattico al centro del palazzo e con 4 schermi, visibile da qualsiasi punto del Center. Ogni pausa (non solo gli intervalli tra i 4 tempi, ma qualsiasi time out) è buona per inventarsi qualcosa: intervista all’abbonato del giorno, gara di baci, gioco delle 3 carte, corsa virtuale di macchinine, individuazione delle donne single…Io sono più interessato alla prepotenza atletica di Aldridge (che guadagna 20 milioni all’anno) e sui fuori programma il mio occhio è distratto solo dalle bellissime Silver Dancers, le cheerleader dei Suns.
Per la cronaca: i San Antonio Spurs (40 vittorie-12 sconfitte) sono secondi nella Western Conference, dietro i Golden State Warriors (448) e davanti agli Houston Rockets (3817).  Il 12 aprile si chiude la regular season e il primo giugno inizia la serie di finale, che chiude play off e stagione.

Le bellissime Silver Dancers dei San Antonio Spurs

Il deflusso dal parcheggio è piuttosto rapido. Noto anche che l’organizzazione ha predisposto il passaggio dal palazzetto per le persone con difficoltà di deambulazione: questi qui, sono veramente avanti.
Quando imbocchiamo l’autostrada, il navigatore impazzisce e pretende di portarci a Waco, tipo a 150 chilometri. Rimediamo mettendo come indirizzo Alamo e ricostruendo da lì la strada verso il Motel 6. Tutt’ora mi resta il dubbio di aver combinato qualche casino io a programmarlo.
Comunque per fortuna il giorno della partenza per Houston il navigatore è in perfetta forma e il viaggio fila via liscio. Siamo alloggiati al Crown Plaza at River Oaks, a qualche chilometro dal centro.
Il personale dell’albergo è però molto stupito quando chiediamo le indicazioni per andarci, in centro. Loro hanno una navetta che va alternativamente a un centro commerciale (a qualsiasi americano, quando pronuncia la parola mall, si illuminano gli occhi…) e al distretto dei musei. Ma noi vogliamo andare in centro, quindi l’autista della navetta si rassegna a portarci alla fermata della metropolitana leggera e ci dice di chiamarlo quando vogliamo tornare: l’appuntamento sarà all’hotel Zaza.
Houston è una metropoli enorme (2.4 milioni di abitanti) ed è il capoluogo della Contea di Harris. Venne fondata il 28 agosto del 1836, quando Sam Houston era all’apice della fama, e riconosciuta come città nel 1837. Il centro storico si riduce a Market Square, che doveva ospitare il Campidoglio della Repubblica del Texas. Ma l’annessione agli Stati Uniti arrivò prima che potessero iniziare a costruirlo.
Alla fine di Main Street si trova Allen’s Landing, dove i fondatori arrivarono percorrendo il Buffalo Bayou. Oggi il fiume si può percorrere in canoa, ma bisogna evitare accuratamente di cadere in acqua, visto che gli alligatori stazionano pigri lungo le rive. Il progetto di riqualificazione è molto recente (2012).
A Houston sono in corso diversi lavori. Stanno anche cercando di migliorare gli svincoli della superstrada, che per me sono già fantascientifici. Ai margini del centro c’è il Minute Maid Park, lo stadio degli Houston Astros, squadra di baseball delle Major Leagues.

Market Square a Houston

Houston ha tra le glorie locali la steakhouse Saltgrass, che si presenta con lo slogan Texas to the bone (texano fino all’osso) e propone una ribeye (per usare il rating della Guida Baldhead) da 5 teste pelate con lisciata di testa. Tutti i ristoranti sembrano essere lungo Main Street, così come i classici music e sport bar.
Attorno ai luoghi pubblici si aggira un’umanità inquietante (homeless, ubriaconi con le bottiglie occultate nei classici sacchetti di carta, persone che semplicemente delirano). Sul metro un uomo anziano (nero) nel tentativo di salire uno scalino rovescia un’intera tazza di caffè e resta lì impietrito e col capo appoggiato su un braccio. All’inizio temo che si sia pisciato addosso. Un ragazzo quasi mi rimprovera (Nobody bothers?) perché non faccio nulla. In effetti non faccio nulla, proprio perché non so cosa fare. Si rende conto che neanche lui sta facendo niente, tira fuori il cellulare e chiama il 911. Dalla faccia che fa, sembra che gli rispondano di farsi i fatti suoi o qualcosa del genere. L’autista ferma il metro e viene ad accertarsi su cosa succede. Chiede un paio di volte “Sir, are you OK?” e poi rimette in moto il mezzo.
Poi l’uomo si scuote e, aiutato da altri passeggeri, scende dalla carrozza.

Ovunque in centro a Houston si trova un cartello che mi ha un po’ spaventato:  spiega che c’è una Legge dello Stato che vieta di dare lavoro ai clandestini. La violazione porta a commettere il reato federale di Human Trafficking (traffico di esseri  umani) e a rischiare qualcosa come 30 anni di galera. Che non è così per dire, perché negli Stati Uniti sono un po’ meno garantisti di noi e se ti condannano, gli anni di galera che ti hanno comminato li sconti tutti.
Quando prendo sonno, sto ancora pensando che sono spaventato.

Nell’articolo di domani parlerò della visita alla NASA.

11-CONTINUA