I Diari del 2007: l’Arizona dello Spring Training

Diario di un cronista itinerante

I 4 Diari che propongo qui sono tutti relativi al mio soggiorno in Arizona. Sullo sfondo, stanno i miei incontri con vari personaggi. Ho un evidente pudore che mi impedisce di rivelare il nome di un paio di giocatori con cui stavo parlando in vista di un loro impiego nella nazionale di baseball (ma a oggi, non è chiaro se io avessi un effettivo mandato per contattarli). Faccio tranquillamente invece il nome di Mike Piazza, che era ancora un giocatore, ma di certo non avrebbe rappresentato l’Italia.
L’ultimo Diario è ambientato al Pink Pony, un celebre locale di Scottsdale. A leggerlo bene, ci si rintracciano la genesi di questa rubrica e della mia direzione editoriale di Baseball.it. A leggere anche distrattamente, si legge la mia avversione verso la nostalgia del passato.

19 marzo- L’orientamento nella terra dei cactus…o cacti

In mezzo ai catus (o cacti...) dell'Arizona
In mezzo ai catus (o cacti…) dell’Arizona

I Cubs di Chicago tengono il loro Spring Training a Mesa, che a sentire le cronache dell´Arizona Fall League si potrebbe percepire come un paesino, ma ha 430.000 abitanti.
All´auto noleggio Avis avevo rifiutato un navigatore GPS e al momento di raggiungere Mesa mi sono sentito abbastanza nervoso per il fatto di non averne uno con me. Così mi sono procurato una cartina del circondario, dalla quale non mi è parso chiarissimo quale effettiva differenza ci sia tra Phoenix, Scottsdale, Tempe e Mesa. Perchè dalla cartina, tutta bella quadrettata di street e avenue, mi sembravano tutte parte di uno stesso agglomerato. Comunque, visto che avevo tempo (e avevo anche fame), ho deciso di perlustrare la zona e vedere se riuscivo ad orientarmi meglio.
Se accettate un altro consiglio, prima di giudicare qualsiasi località in America aspettate la luce del sole. Quindi il giorno e, possibilmente, una bella giornata. Perchè le strade larghe, pulite, dal traffico difficilmente caotico, e l´impressionante varietà di negozi che le costeggia tenderanno a mettervi di buon umore. A quel punto vi sembrerà normale avere un´auto con il cambio automatico e persino mettervi la cintura di sicurezza. Inevitabilmente, vi fermerete da Mc Donald´s per un panino e capirete perchè per gli americani questo è un fast food, mentre quando entrate in quelli italiani vi sfugge il senso dell´espressione. Uscirete con la coca cola ancora a metà, perchè anche voi volete posizionarla nell´ampio spazio per il bicchiere che avete notato nel cruscotto. E partirete con la radio accesa e il finestrino mezzo abbassato, sorprendendovi di rispettare addirittura i limiti di velocità.
Se uno quando va in Arizona si aspetta di vedere dei cactus, di certo non rimarrà deluso: crescono ovunque. Una delle cose belle di un cactus è che al plurale fa cacti, cosa che mette in crisi il vecchio dogma del traduttore, ovvero che in italiano le parole di origine straniera non hanno il plurale. Insomma, secondo me, nelle multisala proiettano dei film e non dei films. Ma quando si tratta di fare il plurale di cactus è un bel problema, perchè se è vero che il Latino può anche essere visto come lingua straniera, è anche vero che una buona parte delle parole italiane è di origine latina. Non so come la metteremo, ma per il momento continuiamo a chiamarli cactus anche al plurale.

Il cane della prateria
Il cane della prateria

Mentre ero impegnatissimo a fotografare un animale che ricordava vagamente un castoro (si trattava di un cane della prateria e non è che ricordi poi molto un castoro…), mi sono reso conto di essere in una strada chiamata Mc Kellips. Ho fatto un´associazione con il Mc Kelly che avevo capito dalle evasive spiegazioni per raggiungere Mesa che mi aveva dato il prospetto del baseball italiano e sono subito andato a verificare sulla cartina che Mc Kellips incrocia Scottsdale Road e anche Mesa Drive, che poi porta direttamente nel centro di Mesa.
Insomma, ho capito che ero perfettamente ambientato per raggiungere tutti gli stadi dell´Arizona che volevo.

21 marzo- Nel vivo dello Spring Training con Olenberger sul monte

Kasey Olenberger fotografato da me a Tempe
Kasey Olenberger fotografato da me a Tempe

“Il nuovo lanciatore è Kasey O-len-berger”. E´ un annuncio che, solo 3 stagioni fa, sarebbe stato ritenuto la norma in uno stadio italiano. Olenberger invece oggi emerge (con il numero 74) dal dug out dei Los Angeles Angels. Di Anaheim, è bene specificarlo, perchè a Tempe non sono pochi coloro che circolano con magliette che protestano per il fatto che gli Angels non si ritengono una squadra di Los Angeles.
E´ curioso, questo fatto. I tifosi degli Angels (che io ho conosciuto come California Angels e che erano poi diventati Anaheim Angels) non si rassegnano a tifare per una squadra di Los Angeles e quelli dei Dodgers rifiutano di concepire che ci sia un´altra squadra di Los Angeles; non a caso, al Dodger Stadium sul tabellone appare la sigla LAD (Los Angeles Dodgers) ma non quella LAA (Los Angeles Angels).
“Se spero di andare in Grande Lega?” mi ha detto Kasey Olenberger all´uscita degli spogliatoi “Mi sembra ovvio che ci spero, ma so anche che sarà difficile”.
Con ogni probabilità Kasey sarà, per il secondo anno consecutivo, uno dei partenti dei Salt Lake City Buzz, la squadra di Triplo A degli Angels. Poi si vedrà.
Certo, vederlo sul monte fa una bella impressione. Alto e statuario, Olenberger non ha timore a sparare la sua palla veloce e a mandare fuori ritmo i battitori con l´ottimo slider che nel 2004 lo aveva reso un lanciatore da guardare durante le Olimpiadi di Atene.
Olenberger esce dopo aver subito un punto: “Non male. Ho ottenuto le battute a terra che volevo, con gli uomini in base. Purtroppo però hanno centrato dei buchi“. Giusto punto di vista: in Spring Training non si gioca per il risultato, anche se a dare un´occhiata alle tribune del Diablo Stadium di Tempe non si direbbe si tratti di un´amichevole: sono 8900 gli spettatori paganti della partita tra i Los Angeles Angels di Anaheim e i Brewers di Milwaukee.
Il Diablo Stadium è a poche miglia dall´aeroporto Sky Harbor di Phoenix e quindi dal mio alloggio sulla strada per Scottsdale ho impiegato solo 10 minuti per raggiungerlo. Appena lasciato il raccordo che porta alla freeway 202 (direzione ovest) non avrei potuto davvero sbagliare: la strada è letteralmente tappezzata di indicazioni per lo stadio e, una volta che il Diablo è in vista, di ulteriori indicazioni per parcheggiare l´auto alla modica cifra di 5 dollari.
A Tempe il clima sembra l´ideale per una partita di baseball: temperatura attorno ai 25 gradi, un vento leggero, una percentuale di umidità insignificante. La struttura dello stadio consente agli spettatori di circolare tranquillamente, visto che sulla sommità delle tribune si trova un ampio corridoio lungo il quale sono sistemate le cosiddette concessions (standard: birra, hot dog, nachos, noccioline e tutto quello che ci si aspetta in uno stadio americano) e alcuni negozi di souvenir degli Angels. Strategicamente, è in questi giorni che gli uffici marketing iniziano a proporre articoli esclusivi della stagione prossima ventura. I tifosi lo sanno e prendono d´assalto lo shop. Io sono in coda con gli altri e mi racconto che, in fondo, la sera fa freschino e che quindi una felpa mi può servire. Quella rossa col cappuccio, guarda che hanno la taglia XXL, sembra abbastanza calda….
Per il tifoso da Spring Training la partita ha la sua importanza, ma c´è un periodo che precede l´incontro che è impagabile. C´è infatti un certo gruppo di giocatori che si sottopone a lavoro straordinario prima del play ball e, per raggiungere il dug out, questi atleti impegnati negli straordinari devono percorrere almeno 200 metri all´aperto. I tifosi si dispongono pazientemente lungo le transenne e si fanno firmare di tutto: palline, foto, guantoni, casacche, figurine. Un bimbo ad un certo punto grida “Scioscia, Scioscia!” e il manager degli Angels si avvicina, Oakley di ordinanza e sudorina, e gli fa: “Dovresti rivolgerti a me dicendo: per favore, Mike. Non mi sembra che chiamarmi Scioscia sia educato. Sono sicuro che i tuoi genitori sarebbero d´accordo”.
Mi sbaglio, o è un bel discorso da trombone?
La partita termina a metà pomeriggio e, sulla strada che riporta alla freeway pullulano i cartelli che indicano quanto soddisfacente possa essere lo shopping del centro di Tempe. Sta per iniziare la seconda parte della giornata rituale del tifoso.
La vita da Spring Training ha d´altra parte i suoi ritmi quasi secolari: sveglia non troppo ritardata, colazione abbondante all´americana (di solito inclusa nel prezzo della stanza d´albergo) con lettura della sezione sport di USA Today (che è gratis in quasi tutti gli hotel), batting practice e partita, shopping, qualche birra (se si è single, HOOTERS è un autentico must) e poi la cena.
Questa è l´America e qui non si improvvisa nulla.

26 marzo- Mike Piazza nel mondo di “Money ball”

Mike Piazza con la maglia degli Oakland A'S
Mike Piazza con la maglia degli Oakland A’S

Chissa se Mike Piazza si ricorderà chi sono.
Lo pensavo mentre mi insinuavo tra 2 file di tifosi che aspettavano la discesa in campo degli Oakland A´S al Diablo Stadium di Tempe e, per effetto di un prezioso pass rilasciatomi dalla sezione Baseball Operations della Major League, scendevo sul terreno di gioco.
Negli Stati Uniti è prassi usuale per i giornalisti stazionare in campo e negli spogliatoi prima e dopo l´incontro. Paradossalmente, è più facile ottenere un pass per il campo durante la regular season, piuttosto che durante lo Spring Training, che è un periodo di preparazione nel quale il pre game ha un valore evidentemente superiore. Gli Angels in effetti mi avevano fatto sapere che avrebbero preferito che espletassi il mio dovere nello spogliatoio (orario indicato: dalle 11.15 alle 12.15) che in campo. Ma visto che sul terreno passeggiavano 3 o 4 giornalisti con un pass dello stesso colore del mio, ho deciso che ci dovevo andare.
Piazza è arrivato dopo qualche minuto a capo chino, ha firmato un paio di autografi e ha risposto al mio terzo Mike con espressione scocciata. Poi mi ha riconosciuto e mi ha stretto la mano con un sorriso a 32 denti.
“Ho avuto una bambina e l´ho chiamata Nicoletta” ha detto sorridendo “Cosa ne dici: Nicoletta Piazza, suona abbastanza italiano?”.
Mi è capitato in passato di fare 2 chiacchiere più o meno personali con un eroe dello sport e sempre era successo che dopo pochi istanti ci eravamo trovati circondati. A Tempe è stato diverso: appunto perchè si capiva che erano chiacchiere personali, nessuno si è avvicinato, almeno fino a che Piazza ha detto che doveva andare a prepararsi, mi ha abbracciato fraterno e si è raccomandato di salutare il Presidente Fraccari. A quel punto gli addetti al campo, che probabilmente mi hanno visto incerto, mi si sono avvicinati e mi hanno indicato la strada per tornare in tribuna stampa.
Lo ammetto, mentre camminavo verso l´uscita ero emozionato. Ho 43 anni, sono un professionista, ma cercate di capirmi: per me essere su quel campo a stringere la mano di Mike Piazza arriva circa al terzo posto dei miei desideri d´infanzia dopo
1) affrontare una corrida da matador e
2) guardare la terra da un´astronave mentre decollo per chissà quale mondo.
Considerando che ben presto mi son reso conto di non aver il fisico (nè il coraggio) per fare il matador e che una precoce miopia mi ha impedito persino di sperare di poter pilotare un jet, figuriamoci un´astronave, capirete che l´episodio si colloca abbastanza in alto nella classifica delle cose mitiche che possono veramente succedere.
Quando gli Oakland A´s, corridori in prima e seconda e zero out, non hanno fatto bunt mi si è dipinto un ghigno sardonico sul volto. Che si è tramutato in una risata sonora quando il battitore successivo ha toccato una bella radente sul seconda base, dando il via al più comodo dei doppi giochi.
Ho letto molto volentieri il libro intitolato Money Ball, ma alla luce di alcune delle interpretazioni che ne ho sentito fare, ammetto che forse censurarlo non sarebbe stato un´idea del tutto cattiva.
A sentire certi commenti, sembra che Money Ball sia un anatema contro il bunt e la rubata. In verità, Money Ball è un anatema contro quella scuola di pensiero che crede che il baseball sia qualcosa da gestire secondo la filosofia dell´inevitabile. Ed è assolutamente paradossale che sia stato interpretato come una sentenza (inevitabile?) sulla morte del bunt e sulla sostituzione degli scout con degli esperti di statistiche.
A chi ha letto Money Ball (e non ci ha capito nulla) consiglio di leggere Three nights in August, il volume che interpreta la filosofia del manager che è il mio personale guru del baseball: Tony La Russa. Che è uno skipper che non rinuncia a studiare il gioco, ma dà ampio credito al fattore umano come influenza sul risultato finale. Mentre un diavoletto mi stimola a sottolineare che Tony La Russa (con Sandy Alderson come GM) le World Series a Oakland le ha vinte e che il General Manager/mito di Money Ball Billy Beane, con i suoi allenatori fantoccio, non le ha ancora giocate (ma già, Alderson e La Russa avevano i soldi, Beane no…infatti, 8.5 milioni di dollari per un anno per fare il DH a Piazza glieli ho dati io…), voglio anche ricordare a tutti i moneyballisti che le idee di Beane sono costruite sulla base di stagioni di 162 partite e non 42 o, se si pensa alla A2, 36. E qualsiasi studente che affronta i preamboli del calcolo delle probabilità vi può spiegare che l´accuratezza delle previsioni cala in maniera esponenziale col diminuire delle prove.
Ripensando a quella partita di Tempe, all´attacco successivo il primo battitore degli Oakland A´S ha battuto un doppio e il secondo lo ha portato in terza con un vecchio, sano bunt di sacrificio.

2 aprile- Il cerchio si chiude: ultima sera al ‘Pink Pony’

La "Old Town" di Scottsdale, Arizona
La “Old Town” di Scottsdale, Arizona

Evasi tutti gli impegni, mi resta da trascorrere in Arizona un´ultima sera.
Avevo avuto un assaggio del centro di Scottsdale durante una cena, diciamo così, ufficiale e non avevo avuto il coraggio di chiedere ai commensali indizi per soddisfare il mio (poco) tempo libero da turista. Così ho inforcato la mia auto giapponese a noleggio e ho percorso Scottsdale Road seguendo con attenzione tutti i segnali che mi indicavano downtown. Con una certa sorpresa, ho scoperto che il centro di Scottsdale è una vera e propria attrazione turistica dell´Arizona. In Europa non accadrebbe mai, visto che il centro di Scottsdale ha un aspetto gradevole ma piuttosto ordinario, ma qui siamo in America e da queste parti mi sono in passato tanto lamentato della mancanza del concetto di centro cittadino che parcheggiare (rigorosamente in divieto di sosta) e potermi aggirare a piedi non mi sembra vero. Anzi, mi pento un po´ per non essere venuto quando la luce del giorno mi avrebbe aiutato.
Scottsdale è una città nata sul finire del secolo 19esimo, subito dopo l´apertura (1883) dell´Arizona Canal. E´ un certo Winfield Scott, un reduce dalla Guerra Civile, a comprare nel 1888 (costo totale: 3.5 dollari) la terra che va dall´odierna Indian School Road a Scottsdale Road: in pratica, un quadrilatero che Scott e sua moglie adibiscono a fattoria, coltivando soprattutto ulivi.
Dal 1896 la zona diventa distretto scolastico e assume il nome di Scotts-dale. Nel 1897 apre il primo negozio.
Nel 1902 Scottsdale diventa a tutti gli effetti un centro del Far West dopo l´omicidio di Peter Johnson ed Amos Nigh da parte del corriere noto come Popcorn John, al secolo John Rubinstein.
Winfield Scott muore nel 1910. E´ proprio in quell´anno che un certo George Cavalliere (un oriundo?) apre il suo negozio da fabbro. Scott non aveva mai voluto dare il permesso di aprire un negozio “sporco, puzzolente e rumoroso” nel suo centro. Per rispetto alla memoria di Scott, a Cavalliere viene concesso di costruire il negozio ai margini del centro. Ancora oggi quel negozio delimita la città vecchia di Scottsdale.
Camminare per la città vecchia porta inevitabilmente il cervello a vagare per i ricordi dei film western. Diciamo che si tratta di un ricordo aiutato dai negozi che vendono abbigliamento del far west (stivali, cappelli, porta monete…qualcosa di mitico) rinforzando il messaggio con enormi poster di John Wayne. Lungo Main Street non manca un locale con musica country dal vivo. Peccato per un venticello gelido, che certo non invita a passeggiare.
All´incrocio tra First Street e Brown Avenue un´insegna fa esplodere un altro ricordo: è quella del Pink Pony.
Nel 2001, durante i suoi reportage per Baseball.it sullo Spring Training, Claire Matthew scrisse un memorabile articolo su questo locale. E, se ricordate cosa scrissi nella presentazione di questa (per ora) ultima serie di Diari del cronista itinerante, capirete come il cerchio si stia per chiudere.
Il Pink Pony è stato costruito nel 1954 da Charlie Briley, uno degli uomini a cui si deve la nascita della Cactus League, ovvero delle partite di Spring Training in Arizona. Il locale è stato rinnovato nel 1970 e, dopo che una cameriera di una certa età mi ha accompagnato al tavolo, mi sembra di poter dire che sia arrivato il momento di…un nuovo rinnovamento.
Dai discorsi che carpisco dagli altri tavoli, sembra che qui siano seduti solo tifosi di baseball. Al bar un paio di uomini di mezza età in tenuta da scout (polo portata dentro i pantaloni cachi e scarpe da ginnastica) si muovono come se fossero le attrazioni del posto.
Ammetto che il Pink Pony mi dà una certa impressione di antico. La cameriera sull´orlo della pensione lascia anche cadere la bottiglia di vino che avevo ordinato e, con un´imprecazione per niente trattenuta, me la cambia. Conscio del fatto che probabilmente gliela addebiteranno, lascio una mancia esageratamente generosa prima di uscire.
Penso che il Pink Pony mi abbia voluto dire che il passato difficilmente ritorna e che la nostalgia non è un sentimento salutare. Mi infilo quindi all´interno di Barnes and Noble e, dopo 10 minuti, ho già in mano tutti i libri che mi servono per ingannare il viaggio di ritorno verso la Florida.

Le date dal 5 al 10 aprile 2007 segnano gli ultimi 3 episodi del Diario di un cronista itinerante. Ai prossimi giorni per la pubblicazione