La mia giornata con gli squali delle Bahamas

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 “Gli squali sono parte dell’ambiente sottomarino. Appartengono al numero delle più perfette, delle più belle creature che la natura abbia mai prodotto…le reazioni dell’uomo che si trova di fronte a uno squalo sono di natura emotiva, radicate nella leggenda o influenzate da storie che non meritano di essere credute”
Jacques Cousteau (1910-1997)

“C’è un mistero riguardo le relazioni tra l’uomo e il pescecane”
Philippe Cousteau (1940-1979)

Il giorno in cui sono in previsione contatti con gli squali, per me è sempre fonte di ansia. Riassumo:
1) E se salta? (possibili cause: maltempo, si scordano di venirci a prendere, sciopero degli squali tipo lo scorso anno a Truk)
2) E se non salta, ma scendo in acqua avendo calcolato male la cintura dei pesi?
3) E se non salta, ho calcolato il peso giusto, ma non riesco a compensare?
4) E se non salta, va tutto bene, ma uno squalo mi attacca?

Azzardando una diagnosi, si potrebbe dire che il mio inconscio adotta uno schema difensivo. Si illude, insomma, che prevedendo tutte le ipotesi negative queste vengano scongiurate. Posso dire che non funziona sempre.

L’arrivo del pulmino di Stuart Cove mi consente di rilassarmi.
Il libro di Lawson Wood sulle immersioni alle Bahamas che ho comprato prima di partire si pone l’annosa domanda: è morale attirare gli squali con il cibo? Wood si pone anche altre domande: avrà conseguenze? E se poi i sub che arrivassero per caso e senza cibo trovassero gli squali aggressivi?
Il fatto è che le Bahamas sono il posto al mondo in cui lo shark feeding è business da almeno 30 anni. Al punto che pescare uno squalo alle Bahamas (al contrario di quel che succede nella vicina Florida) costa molto caro. Il Governo (prosaico) ha d’altra parte calcolato che uno squalo vivo (grazie ai turisti che arrivano per vederlo nel suo ambiente naturale) vale 200.000 dollari.
Partiamo con la barca Phocena. Il Capitano Harris è beffardo: “Se non vedete almeno 10 squali nella prima immersione, vi ridò i soldi di tasca mia”.
Prima di partire ci hanno fatto firmare un modulo nel quale sostanzialmente si dice che se ci facciamo mangiare sono cavoli nostri.  C’è una biondina di Indianapolis, che si immerge con solo 3 libbre addosso (beata lei, io propendo per 18), che racconta a tutti che è alla sua sesta shark adventure: “Pensate, la prima me l’ha rovinata una megattera, che ha fatto scappare tutti gli squali”. Rovinata? Le fa eco un membro dell’equipaggio: “Io faccio shark feeding tutti i giorni e una cosa del genere non l’ho mai vista….”-
Il resto del gruppo consiste di un argentino tracagnotto che ha la cittadinanza italiana (i nonni sono di Ortona, Chieti), un argentino che non sa una parola d’Inglese, un canadese ex figlio dei fiori e con la moglie che una ventina d’anni fa doveva avere davvero il suo perché e una coppia di statunitensi  in procinto di stabilirsi a Jupiter in Florida. Lei è un istruttore (non l’avrei detto sott’acqua, visto che me la ritrovo sempre in mezzo ai piedi), lui è sostanzialmente il suo agente, visto che passa la giornata a magnificarne le capacità.

Uno squalo grigio di barriera fotografato a quasi 30 metri di profondità

La prima immersione è sul relitto della Bahama Mama, una nave che veniva usata per le feste e che è stata affondata nel 1995, proprio per creare l’ambiente ideale per una immersione con gli squali. Alle Bahamas sono piuttosto comuni gli squali grigi di barriera dell’Oceano Atlantico (carcharinus perezi). Dopo averne incontrato uno a Fernando de Noronha (isola brasiliana) avevo scritto che il perezi “è tutto quello che ci si aspetta da uno squalo”. E’ anche un animale fortemente territoriale, che tende a espellere qualsiasi altro squalo dalla sua zona di caccia. Katie, che ci aveva accompagnato in immersione il giorno prima, mi conferma che è difficile vedere altri squali alle Bahamas.
Quando entriamo in acqua, il Capitano Harris ci dice di “non galleggiare” e immergerci subito, non appena verificato che abbiamo addosso abbastanza chili. Appena metto gli occhi nell’acqua, capisco perché: sotto di me sta volteggiando un piccolo squalo e dietro di lui c’è il suo fratello più grosso. Al diavolo il peso, mi metto a seguirli. Ma non sono sceso abbastanza e do una testata al fondo della barca. Mi guardo interno e mi accerto che nessuno abbia visto il mio movimento goffo. Ricordo che durante la prima immersione del corso advanced alle Maldive ero partito all’inseguimento di un pinna bianca, suscitando le ire dell’istruttore Alain. Fatto il controllo con il mio diving buddy (mia moglie, come è tradizione) arrivo sul fondo e inizio a contare gli squali. Quando arrivo a 10, mi fermo. Però inizio a fotografare ovunque.
Il Bahama Mama è adagiato tra i 15 e i 30 metri di profondità, ma io a 30 metri resto poco, per risparmiare aria. Lì sul fondo si sono posati (come è loro abitudine) diversi squali nutrice. Negli anfratti del relitto si trovano cernie grandi come gli squali più piccoli. Devono essere animali molto furbi, per essere arrivati a queste dimensioni vivendo nel territorio degli squali grigi. I perezi sono ovviamente l’attrazione. Ce ne sono di tutte le dimensioni, i più grandi a superare abbondantemente i 2 metri. Ci girano anche abbastanza al largo, a parte uno squalo di un metro e mezzo. Gli arrivo così vicino che posso distinguere bene l’occhio vitreo. Quando secondo me mi fissa, sento un brivido lungo tutto il corpo e faccio una prudente retromarcia.
Quando è ora di risalire, mi accorgo che ci sono almeno 4 grandi squali che mi accompagnano. Uno addirittura si piazza tra me e la barca durante la mia pausa di decompressione. E’ una grande occasione di foto.

Un carcharinus perezi tra me e la barca

Sulla barca penso che ho fatto bene a chiedere una muta di taglia 3XL. Il giorno prima, l’avevo sentita un po’ troppo attillata attorno all’inguine e voglio essere sicuro di essere completamente a mio agio per lo shark feeding, il momento clou della giornata. Harris sposta la barca di pochissimo e annuncia che ci immergeremo a The Arena, un sito al quale il libro di Lawson Wood dà le 5 stelle di first class. Ascolto le varie raccomandazioni: “non estendete le braccia; se vi sentite cadere, non agitate le braccia per mantenere l’equilibrio, lasciatevi cadere e fatevi aiutare: non vogliamo che uno squalo confonda un vostro braccio per un pesce”.
Non è il mio primo shark feeding. Nel dicembre del 2008 ho partecipato a quello organizzato da Aquartrek (di proprietà di un australiano di nome Brian) alla Beqa Lagoon, isola di Viti Levu alle Fiji.
Quel giorno l’attrazione era stato il carcharinus leuca, quello che gli anglofoni chiamano bull shark. Durante la seconda immersione si è presentata una femmina enorme, di sicuro sopra i 3 metri. Non era particolarmente interessata alle esche che il feeder offriva da una piattaforma in cemento (per la cronaca, anche quel sito si chiama The Arena). I sub, per non correre il rischio di galleggiare, si tengono a una corda.
Avevo appuntato dopo l’immersione: “BELLISSIMA! Da quando si presenta, la seguo da una parte all’altra della corda e una delle guide che vigilano (chi non nutre materialmente gli squali, si apposta ai 2 angoli dell’arena ed è munito di bastone, che ha forse la possibilità di dare lievi scosse a uno squalo che si interessi troppo al pubblico) mi guarda, un po’ timorosa. Non succede nulla, per fortuna”.

Quello dello shark feeder è un mestiere pericoloso…

In questa immersione non ci sono corde, ma a ogni sub viene assegnata una roccia. Ci dicono che ci possiamo mettere a cavalcioni della roccia o sdraiarci tenendoci pancia in giù: abbiamo la muta, non temiamo abrasioni.
Mentre ci sistemiamo, ci sono già diversi squali che circolano. Ma quando arriva il feeder con la cesta delle esche, in un attimo si moltiplicano. Sono tutti perezi, a parte qualche nutrice e alcuni sono veramente dei bestioni.
La cosa particolare dello squalo è che si muove sempre. E’ obbligato a farlo, perché (pesce cartilagineo) non è dotato della vescica natatoria comune ai pesci ossei. Lo squalo così nuota più libero ed è il suo fegato (o meglio: l’olio che contiene) ad aiutarlo nell’adattare il suo peso specifico all’ambiente. Ma se si dovesse fermare, rischierebbe di finire in superficie e soffocare. Per questo lo squalo si muove sempre. Nello specifico: entra nell’Arena, si conquista il suo pezzo di esca ed esce, il tutto seguendo la corrente e compiendo un percorso circolare. Spero di essere in grado di spiegare bene quello che ho visto: l’effetto per noi è che gli squali passano da tutte le parti e ci considerano parte dell’ambiente circostante, quindi ci sfiorano. A volte addirittura ci urtano. Non a caso, ci avevano detto di non andare nel panico se uno squalo ci avesse inavvertitamente tolto il boccaglio: “prendete quello di riserva e continuate a respirare. Uno di noi verrà ad assistervi.”.
Il feeder e il fotografo Andrè hanno preso le loro misure precauzionali: sopra la muta portano una maglia di metallo e indossano un casco. Andrè ci mette in posa per le foto ricordo (che ci venderà a 15 dollari l’una…). Il feeder si sposta con la cesta, per consentire a ogni partecipante all’immersione di vedere coi suoi occhi la frenesia alimentare degli squali. L’immagine di lui circondato dagli squali che si muovono vorticosamente mi resterà certamente negli occhi finchè campo.
I nutrice sono sul fondo (riescono ad affondare riempiendosi d’aria lo stomaco, quando arrivano a pelo d’acqua; è una tecnica usata anche dai leuca, soprattutto in acqua dolce, dove nuotano a profondità molto basse), ma lo spettacolo maggiore è quello dei perezi di grandi dimensioni, che ci passano a pochi centimetri e ci permettono di osservare la loro bocca. Visto dal basso, lo squalo ha un muso quasi arrotondato e le sue pinne pettorali sembrano ali. Visto di fianco, ha la sua più familiare forma affusolata e il suo occhio pallato gli dà l’aria inquietante che conosciamo bene.
Ogni volta che vedo lo squalo in acqua, non posso fare a meno di notare come questo animale sia veramente perfetto per fare quel che sa fare bene: nuotare velocissimo e mangiare.  E ancora una volta subentra in me la malsana sensazione che gli squali non mi faranno niente. Ci sono decine di squali, non riesco nemmeno a contarli. Di certo, mi devo trattenere per non toccarli, cosa che ci è stata vietata nel modo più assoluto.

Vista dal basso, la bocca di questo grande squalo grigio fa la sua impressione

Il segnale che l’immersione finita lo dà il feeder, che si allontana con la cesta. Gli squali lo seguono e noi possiamo risalire. Sono l’ultimo a tornare sulla barca, tanto che assisto al ritorno del feeder, diligentemente seguito da diversi grandi squali. Andrè mi fa segno di sbrigarmi a tornare in barca. Quando anche lui e il feeder sono sul ponte, il Capitano Harris lancia qualche avanzo d’esca in acqua e il mare inizia letteralmente a ribollire di pinne. Harris mi guarda e dice: “Immagino che adesso non torneresti in acqua…”.
Sono così esaltato che non riesco a stare seduto. Vado da una parte all’altra della barca a commentare con tutti a suon di “incredibile” e “fantastico”.
Dopo esserci fatti timbrare i log book che archiviano tutte le nostre immersioni, seminiamo un po’ di panico nel negozio di souvenir. Torno a casa con una t-shirt a maniche lunghe che mi costa 40 dollari.
Sotto un video (da YouTube) sullo shark feeding di Stuart Cove.

Questo è l’ultimo capitolo dedicato al viaggio in sè. Per chiudere la categoria ho però bisogno di una diciannovesima parte, dedicata alle mie considerazioni dopo la lettura dei libri 2 e 3 della Trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson. Ma ho messo la lettura del terzo libro in stand by, quindi servirà un po’ di tempo prima che possa tornarci su

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