Lo schiavismo: una vergogna per l’umanità

Kenya, Tanzania e Zanzibar 2013-2014, SCHIROPENSIERO, VIAGGI

“Tutto quello che posso aggiungere nella mia solitudine è che la benedizione del cielo possa scendere su chiunque, americano, inglese o turco, vorrà aiutare a sanare questa ferita aperta nel mondo”

Un ritratto di David Livingstone
Un ritratto di David Livingstone

David Livingstone scrisse queste parole poco prima di morire, nel 1873. Di lì a poco, il Sultano di Zanzibar avrebbe chiuso il mercato degli schiavi e, nell’arco di un decennio, il traffico sarebbe stato definitivamente vietato. Per la verità, fino al 1907 a Zanzibar si venderanno (per quanto illegalmente) esseri umani.
Nato in Scozia nel 1813, Livingstone era figlio di un’era dell’Impero britannico che non conosceva lo schiavismo (nei possedimenti di Sua Maestà era stato abolito nel 1807). Laureato in Medicina, divenne Missionario per contribuire alla lotta contro il Signori dell’Oppio in Cina. Verso i 40 anni iniziò a viaggiare in Africa, dove fu il primo europeo ad arrivare alle cascate Vittoria (diede alle cascate il nome della Regina d’Inghilterra). Le sue successive spedizioni furono fallimentari e le missioni che impiantò dovettero chiudere a causa delle malattie che uccidevano i bianchi in Africa. Livingstone cercò di navigare il fiume Zambesi, ma senza successo. Quando nel 1864 tornò in Inghilterra per cercare fondi, fu poco ascoltato. Decise quindi nel 1866 di tornare in Africa. Da Zanzibar, iniziò una poco felice (credette di averla trovata nel fiume Congo) ricerca della fonte del Nilo. Non tornerà più in Europa.
In assenza di sue notizie, molti lo diedero per morto. Non il giornalista Henry Morton Stanley, che lo rintracciò a Ujii, un villaggio nei pressi del lago Tanganica.
Quando vide per la prima volta Livingston, Stanley gli si avvicinò e pronunciò una frase che è diventata l’emblema del formalismo dell’Inghilterra vittoriana: “Doctor Livingstone, I presume?”.
In realtà, racconterà lo stesso Stanley, quella frase fu pronunciata “Per codardia morale e falso orgoglio”. Prosegue Stanley: “Sarei corso da lui e lo avrei abbracciato, ma fui intimorito dalla folla”.
Siamo nel 1871. Stanley supporta Livingstone nell’esplorazione del lago Tanganica e raccoglie le sue testimonianze sull’orrore dello schiavismo. Per gli Inglesi, era come detto inconcepibile, ma Livingstone aveva appurato che proprio da Uji partivano le carovane di schiavi destinate a Bagamoyo, dove questi poveretti venivano imbarcati per Zanzibar, sede del principale mercato degli schiavi.

Uji è ad un passo da Kigoma, dove abbiamo dormito sulla strada per il parco Gombe. Con mezza giornata da buttare, abbiamo accettato di visitare il memoriale dedicato a David Livingstone. Se devo essere sincero, conoscevo Livingstone come esploratore e per qualche caratterizzazione cinematografica del personaggio. Non mi aspettavo di sentirne parlare con venerazione, come ha fatto l’anziano direttore del museo, un omino piccolissimo e che parla un Inglese estremamente faticoso. Il direttore stringe la mano secondo la moda degli africani anziani: appoggiando la mano sinistra sul gomito destro. E’ un segno di rispetto.
La cosa che colpisce di più del memoriale è l’immagine di Livingstone che rompe il giogo di 2 schiavi e li libera. Non è un’immagine simbolica: Livingstone aveva veramente liberato 2 schiavi (Chumah e Susi), che erano poi diventati suoi assistenti. Alla sua morte, Chumah e Susi trasporteranno il corpo di Livingstone per oltre 1500 chilometri, fino a Bagamoyo. Fu un viaggio (questa volta sì) altamente simbolico, visto che avvenne lungo la stessa rotta seguita dalle carovane di schiavi. Il corpo di Livngstone venne poi imbarcato per l’Inghilterra e, qui giunto, sepolto nell’Abbazia di Westminster. Chumah e Susi avevano nel frattempo espiantato il cuore e l’intestino del Missionario e li avevano sepolti nel luogo della sua morte (causata dalla malaria), nell’attuale Zambia.
Gli scritti di Livingstone, resi pubblici da Stanley nelle Università di Cambridge e Oxford, furono fondamentali per la consapevolezza dell’opinione pubblica britannica.

Quando mi rendo conto di essere esattamente nel luogo del “Doctor Livingstone, I presume” di Stanley, smetto di parlare. Annuisco solo quando mi propongono di andare all’inizio della strada percorsa dalle carovane di schiavi. Ammetto che questi atti enfatici e, forse, un po’ teatrali fanno parecchio presa su di me. Vedere questa strada di terra rossa, costeggiata da modestissime (per quanto dignitose) abitazioni, mi crea un nodo alla gola. Ripenso a quello che diceva il direttore del museo: “Gli schiavi che non ce la facevano venivano abbandonati lungo la strada perché gli animali li finissero”.
Guardo gli alberi di mango, che i trafficanti avevano piantato per segnalare il percorso giusto e creare l’ombra necessaria per le soste di riposo.

Il mercato degli schiavi nacque per iniziativa degli arabi. Dal tempo dell’egira di Maometto (la nascita dell’Islam, ufficialmente anno 622) è vietato ridurre in schiavitù un fratello musulmano. Maometto, che era analfabeta, non scrisse materialmente il Corano e non è chiarissimo quando ne iniziarono a circolare copie in Arabo. Di certo, la prima in Latino (traduzione commissionata di Lutero in persona) data 1542. Comunque, il Corano vieta di ridurre in schiavitù altri musulmani, ma nulla dice degli infedeli. Così, avendo necessità di schiavi, il Sultano di Zanzibar pensò bene di trovarli in Africa. Strada che poi venne seguita con convinzione anche dai Portoghesi (dal 1750, escludendo i nativi delle loro Colonie), dagli Spagnoli (in tutta Europa il traffico di schiavi sarà vietato dal Congresso di Vienna del 1815, per quanto solo formalmente; a quel tempo la Spagna non era più una potenza coloniale) e dagli Statunitensi (l’abolizione della schiavitù arriverà solo nel 1865, dopo la Guerra Civile).

Per non dimenticare
Per non dimenticare

Nella città storica della capitale di Zanzibar, che si chiama Stone Town, si trova una chiesa anglicana che sorge esattamente nello stesso luogo dove si trovava il mercato degli schiavi. Alcuni pannelli spiegano in che modo venivano trasportati gli schiavi in nave: stivandoli in loculi strettissimi, dai quali dovevano evacuare in apposite latrine senza nemmeno alzarsi. Chi era lontano dalle latrine, finiva con il calpestare gli altri. Non sono pochi i casi di persone morte per essere letteralmente affogate nella merda.
Mi guardo intorno: qui sono state vendute non meno di 600.000 persone e non è chiaro quante ne siano morte di stenti (Livingstone sosteneva circa 80.000 all’anno) durante il trasporto a piedi dal Continente o in nave verso le varie destinazioni.
Dove alloggiavano gli schiavi c’è ora una pensione (Monica’s), ma al piano sotterraneo è stata mantenuta una delle celle in cui alloggiavano gli schiavi prima di essere venduti. Questo per i turisti che vogliano avere un’idea. Per entrarci, bisogna piegarsi in 2 e sulla pietra-giaciglio sono state mantenute le catene che venivano messe al collo e ai piedi degli schiavi. Ascolto una guida che spiega: “In linea di massima, dovevano stare uno sopra l’altro”.
Dove il venditore batteva il prezzo degli schiavi, c’è ora l’altare della chiesa. All’esterno si trova un monumento che fa venire i brividi: in una buca, ci sono le statue grezze di uomini, donne e bambini in catene.
Il mercato degli schiavi ha cambiato la storia e il destino di molti popoli dell’Africa. Che forse non avrebbero mai costruito staccionate per proteggere i loro villaggi o armato eserciti, se non si fossero dovuti difendere da chi cacciava i membri della loro comunità per poi rivenderli. Ancora oggi, la maggior parte degli africani ha un rapporto di soggezione verso i bianchi e non è raro che vi si rivolgano in Swahili con il termine bwana, che significa letteralmente padrone.
Con il mercato degli schiavi si realizzavano profitti incredibili. Uno schiavo in buone condizioni negli Stati Uniti valeva 500 dollari nel 1850, circa 15.000 di oggi. Insomma, si può dire che il mercato degli schiavi di Zanzibar abbia visto circolare un valore che, riportato al secolo 21esimo, sarebbe pari a 9 miliardi di dollari.
Come ha fatto l’umanità ad accettare tutto questo?

Quando parliamo di abolizione della schiavitù, parliamo di atti meramente formali. La storia ci dice che la dichiarazione universale dei diritti umani abolisce la schiavitù in ogni sua forma nel 1948. Ma sempre la storia ci racconta che la Mauritania prevedeva legalmente  la schiavitù fino al 1980. Per non dire dell’apartheid, in vigore dal 1948 al 1993 in Sudafrica e dal 1948 al 1990 in Namibia. Che non è schiavismo, ma è un sancire per legge che bianchi e neri non hanno gli stessi diritti. E incidentalmente, dal 1976 l’apartheid era considerato crimine contro l’umanità.

Sull’argomento, una volta tanto, noi Italiani possiamo guardare il mondo dall’alto verso il basso. Il primo paese al mondo a proibire la tratta degli schiavi fu la Serenissima Repubblica di Venezia nel  960. Che poi ci sia una certa (e macabra) ironia nel fatto che da quelle parti oggi proliferi un partito di gente che dà dell’orango a un Ministro della Repubblica perché è di pelle nera, è un altro discorso.