“L’ultima partita”: il mito di Lou Gehrig rivive a teatro grazie a Mario Mascitelli

BASEBALL, CINEMA, SCHIROPENSIERO

Alle scuole elementari i miei migliori amici si chiamavano tutti e 2 Paolo. Non andavano tanto d’accordo tra di loro e uno era alto (e tifoso del Milan, come me), mentre l’altro era piccolo di statura (e disinteressato al calcio, cosa che ritenevo gravissima).
Paolo quello alto era nettamente più veloce di me nella corsa, quindi quando si giocava a calcio (cioè più o meno sempre) lo sceglievano prima di me. Quando iniziò a propormi di andare a vedere una partita di baseball reagii con sospetto: forse voleva trovare un altro gioco nel quale dimostrarsi più bravo di me?
Passando alle medie non mi ero ritrovato in classe con nessuno dei 2 Paolo. In compenso, ero diventato alto come Paolo quello alto. Non correvo ancora veloce come lui, ma nelle gare di resistenza gli tenevo testa bene. Non ero però ancora pronto per andare a vedere una partita di baseball, anche perchè lo stadio di Parma si trovava in viale Piacenza. Negli anni ’70 del secolo scorso per me, che abitavo in pieno centro e vedevo la stazione dei treni come estremo confine del mio territorio, viale Piacenza era lontana. E anche un po’ pericolosa.
In piazzale Pablo (sosteneva il Parroco) qualcuno aveva addirittura trovato per terra un goldone. Termine che per me, parmigiano di nascita ma non di lingua madre, è rimasto misterioso per parecchio tempo e lì per lì poteva anche essere qualcosa di velenoso o un animale che mordeva.

La locandina originale de "L'idolo delle folle"
La locandina originale de “L’idolo delle folle”

Il lunedì era l’unica sera della settimana che mio padre (che gestiva un ristorante) passava a casa con noi. Era anche una delle 2 sere della settimana in cui si poteva guardare un film in televisione. Che film fosse, di solito lo si scopriva dall’annunciatrice. Ma quel lunedì del 1975 mia nonna Bianca aveva sentenziato: “Danno un film con Ghericuper“.
Guardare un film di 30 o più anni prima allora non era inusuale come oggi, visto che per vedere i film più recenti era necessario andare al cinema (c’erano addirittura sale specializzate nelle seconde e terze visioni…), ma dal mio punto di vista di dodicenne, Ghericuper restava uno da film romantici e sdolcinati. E oltretutto, questo era un film su quel gioco di cui non mi decidevo ad andare a vedere una partita. Iniziai con poco entusiasmo la visione, ma quando il protagonista fece una battuta così lunga da rompere il vetro di un ufficio nel quale si stava discutendo se poteva essere un buon affare proporgli un contratto, iniziai a pensare che dovevo accontentare il mio amico Paolo e andare a vedere una partita di baseball.

A sinistra Gary Cooper, a destra Lou Gehrig
A sinistra Gary Cooper, a destra Lou Gehrig

Il film era L’idolo delle folle (in Inglese The pride of the Yankees). Gary Cooper dà il volto a Lou Gehrig.
Quando venne ingaggiato, Cooper era fresco di Oscar (vinto nel 1942 per Il sergente York) come miglior attore protagonista e con questa interpretazione (nella quale ha una somiglianza straordinaria a Gehrig; i 2 erano praticamente coetanei: classe 1901 Cooper, classe 1903 Gehrig) si meritò una nuova candidatura.
Fu una delle 8 nomination per il film scritto da Jo Swerling e Herman J. Mankiewicz (sceneggiatore di Quarto Potere di Orson Welles) e diretto da Sam Wood, grande veterano di Hollywood (aveva portato in scena i Fratelli Marx e aveva contribuito a Via col vento), che dirigerà ancora Gary Cooper in Per chi suona la campana.
L’Idolo delle Folle vinse però solo un premio Oscar: quello per il montaggio. Fu ben meritato, in quanto Gary Cooper volle girare tutte le scene di baseball personalmente. Era una star e non volle sentire ragioni: era destro e avrebbe lanciato e battuto di destro. Come rendere il fatto che Lou Gehrig era mancino, sarebbe stato un problema del produttore Samuel Goldwyn. Che da parte sua si ingegnò e trovò una soluzione: stampare al contrario il negativo. Questo comportò la necessità di far ricamare numeri e nomi sulle maglie al contrario e invertire il senso della corsa sul campo.
Quella sera del 1975 davanti al televisore piansi di nascosto.

Mario Mascitelli porta in scena Lou Gehrig
Mario Mascitelli porta in scena Lou Gehrig

Qualche lacrima, lo ammetto, me la sono dovuta asciugare anche quando si sono accese le luci domenica 1 maggio al Teatro del Cerchio di Parma dopo la rappresentazione di L’ultima partita, la storia di Lou Gehrig raccontata in scena da Mario Mascitelli.
Da quel giorno del 1975 per me Lou Gehrig è stato un punto di riferimento. Non tanto per la sua bravura di battitore (grande, media battuta vita .340 e 493 fuoricampo, ma non certo unico: ce ne sono 15 meglio di lui come media e 27 come numero di fuoricampo) e nemmeno per il numero di partite consecutive giocate (2.130: Cal Ripken lo ha portato a 2.632, battendo il 6 settembre 1995 un record che resisteva dal 30 aprile 1939). Quel che di Lou Gehrig mi ha sempre colpito è quella frase: “Today I consider myself the luckiest man on the face of the earth” (Oggi mi considero l’uomo più fortunato sulla faccia della terra).

Era il 4 luglio del 1939. Lou Gehrig sapeva di avere una mallattia terribile, anche se ancora così rara che sarebbe passata alla storia con il suo nome. Sapeva che non avrebbe vissuto più di 3 anni (morirà meno di 2 anni dopo). Eppure aveva voluto ringraziare. E in questo secondo me c’è la vera grandezza, perchè quelle parole contengono una straordinaria lezione di vita. Un uomo che era partito da zero ed era arrivato ad avere tutto, ora che stava per perdere tutto non si disperava per quel che avrebbe perso, ma ringraziava per quel che aveva avuto.
Il giornalista Shirley Povich per descrivere la commozione di quella giornata usò una curiosa iperbole: “C’era tanta tristezza allo Yankee Stadium, che quel giorno ho persino visto i fotografi piangere”.

Quelle parole (“Sono un uomo fortunato”) hanno colpito evidentemente anche Mario Mascitelli, perchè ricorrono in più punti della messa in scena.
Mascitelli è stato un buon giocatore di baseball, soprattutto un ottimo battitore. Ha giocato nel massimo campionato italiano (con Milano, Crocetta Parma, Novara e Modena) 402 partite dal 1987 al 1998. La sua media battuta vita è di .302. Oggi è un allenatore di baseball (nello staff del Parma e in quello della nazionale Juniores), ma la sua attività prevalente è quella di regista e attore teatrale. Attualmente è il Direttore Artistico del Teatro del Cerchio, ma la sua carriera inizia quasi 20 anni fa, nel 1997 e a raccontare storie di sport Mario aveva già provato nel 2006 con Sante Pollastri: un brigante al giro d’Italia.

Il Teatro del Cerchio durante "L'ultima partita"
Il Teatro del Cerchio durante “L’ultima partita”

Come giocatore Mascitelli era un battitore destro ma, al contrario di Gary Cooper, in scena impugna mazza e guanto come un mancino.
E’ in scena da solo e, in quanto Lou Gehrig, dialoga con personaggi immaginari: l’amico Fred, qualche scout, la madre, la moglie. La scena è essenziale e l’unico supporto che l’attore ha durante il monologo è quello di immagini d’epoca.
Il tono della rappresentazione è all’inizio giocoso. Ho trovato soprattutto efficace la sommaria spiegazione delle regole del baseball. Ovviamente, il tono diventa sempre più drammatico, fino alla scena madre dell’annuncio della malattia alla moglie nel corso di una telefonata. Ma in nessun momento il testo vira verso la ricerca della benevolenza o della commozione facile.
L’ultima partita rappresenta in effetti un vero e proprio atto d’amore verso lo sport del baseball e anche verso il ruolo dell’attore. Che con il battitore condivide la coraggiosa scelta di confrontarsi da solo (con il pubblico, con il lanciatore) e ben sapendo che dietro le quinte c’è chi lo supporterà (il resto della squadra, i tecnici e gli scenografi).
Ero al Teatro del Cerchio domenica 1 maggio e ho applaudito convinto, con tutti i presenti, uno spettacolo che merita di essere visto.
Per il momento, L’ultima partita verrà replicato solo a Parma (sabato 7 e domenica 8 maggio). Ma ci sono motivi fondati per ritenere che sarà presto anche su altre piazze.

A sinistra Babe Dahlgren e a destra Wally Pipp
A sinistra Babe Dahlgren e a destra Wally Pipp

Wally Pipp (1893-1965) era il giocatore al quale Lou Gehrig tolse il posto nel giugno del 1925. Al contrario di quel che narra la leggenda, che parla di un mal di testa, Pipp (tutt’altro che un carneade: giocò 15 stagioni in Major League con una media battuta vita di .281) uscì di squadra per scelta tecnica in un momento in cui gli Yankees stentavano in battuta e solo dopo aver perso il posto venne colpito alla testa da una palla. Perso il posto da titolare, venne ceduto ai Cincinnati Reds, con i quali giocò 372 partite nelle successive 3 stagioni.
Babe Dahlgren (1912-1996) fu il giocatore che prese il posto di Lou Gehrig il giorno in cui si interruppe la serie di partite consecutive. Nel 1939 era alla sua terza stagione agli Yankees (veniva dai Boston Red Sox, con i quali aveva accumulato 165 presenze), ma fin lì aveva giocato solo 28 partite. Vestirà la casacca pinstripe in 299 occasioni tra il 1939 e il 1940, prima di passare ai Boston Braves. Si ritirerà dopo la stagione 1946.
Questo è il suo ricordo: “Dopo che ebbe portato il line up all’arbitro tornò in panchina e andò a bere alla fontana. Uno dei nostri rilievi si accorse che piangeva e gli lancò una salvietta. Dopo essersi asciugato il viso, si alzò senza guardare nessuno e senza dire nulla e si sedette in panchina. Andai a chiedergli di entrare sia al settimo che all’ottavo, volevo vedere una partita aggiungersi al record. Ma aveva già deciso, non riuscii a convincerlo”.

De L’Idolo delle Folle il regista Fielder Cook ha realizzato nel 1978 il remake: A Love Affair: The
Eleanor and Lou Gehrig Story, prodotto dal network televisivo NBC. La sceneggiatura fu basata sul libro My Luke and I, scritto dalla moglie di Lou Gehrig Eleanor e da Joseph D’Urso.
Robert Malloy, nipote dello storico proprietario degli Yankees George Streinbrenner, e Michael Uslan, Produttore Esecutivo di The Dark Night, stanno lavorando al progetto per un nuovo film su Lou Gehrig.

La malattia che ha ucciso Lou Gehrig si chiama Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA). Come dice Mascitelli in scena: “E’ come se il corpo non ricevesse i comandi del cervello…è come quando un custode spegne le luci a una a una”.
Tutt’ora non esiste una cura, ma esiste l’AISLA, un’associazione che si occupa di assistere chi è colpito dal Morbo di Lou Gehrig e che naturalmente ha bisogno dell’aiuto di tutti noi.