Un giorno alla NASA

SCHIROPENSIERO, Texas e Bahamas 2016-2017, VIAGGI , , , , , ,

“We choose to go to the Moon!  We choose to go to the Moon in this decade and do the other things, not because they are easy, but because they are hard” John Fitzgerald Kennedy, 12 settembre 1962

Il Presidente degli Stati Uniti Kennedy pronunciò queste parole (“Scegliamo di andare sulla luna in questa decade, non perché sia facile, ma perché è difficile”) all’Università Rice, vicino a Houston. Su YouTube si trova il discorso integrale, che dura poco meno di 18 minuti. La frase che ho citato è circa al minuto 8. Dopo 4 minuti, Kennedy aveva strappato un applauso dicendo che qualcuno vorrebbe fermarsi a riflettere, “ma questa città, questo Stato del Texas e questo Paese non sono stati fondati da chi voleva aspettare….”

 

 La NASA  (National Areonautics and Space Administration) esisteva dal 1958. Raccoglieva l’eredità del NACA (National Advisory Commitee for Areonautics), fondato durante la prima Guerra Mondiale. L’America aveva già dovuto incassare (ottobre 1957) l’affronto dello Sputnik, il satellite che i sovietici avevano messo in orbita, e (maggio 1961) l’ulteriore affronto di Yuri Gagarin: era sovietico il primo astronauta a raggiungere l’orbita terrestre. Lo Space Center di Houston sarebbe stato inaugurato un anno dopo il discorso di Kennedy e dedicato a Lyndon B. Johnson (il Presidente degli Stati Uniti dopo l’omicidio di Kennedy) nel 1973. A Kennedy non potevano dedicarlo, perché c’era già il Kennedy Space Center, lo spazioporto di Cape Canaveral (Florida) attivo fin dal 1949. Addirittura, nel momento emozionale seguito alla morte del Presidente, Cape Canaveral era stato ribattezzato Cape Kennedy. Ma nel 1973 gli abitanti chiesero e ottennero di tornare al nome originale.

Lo Space Center Houston  è invece il centro visitatori ed è stato inaugurato nel 1992. E’ frutto di uno studio molto attento di design, ispirato dalla Walt Disney Imagineering e realizzato da Bob Rogers e dal team Imagination Arts.
Ci arrivo in un giorno di pioggia con le consuete paranoie che mi affollano la testa quando mi avvicino a coronare un sogno e comincio a temere di vederlo svanire, a cominciare da e se per la pioggia sospendono la visita. Dopo tutto, sono uno di quei bambini che nell’estate del 1969 giuravano che avrebbero fatto gli astronauti. Che era un bel proposito da avere, prima di iniziare le elementari. Comunque, a ottobre io e il mio compagno di banco assaggiamo per la prima volta la classica pattona del Maestro Berti nella nuca perché ci parlavamo usando come intercalare il bip che segnava la comunicazione tra Houston e la Missione  Apollo.
Potete ben immaginare cosa abbia significato per me ritrovarmi a un passo da quella sala Controllo Missione. Che è rimasta com’era, con il telefono rosso per comunicare con il Presidente in caso di problemi.
La guida è brillante: “Lo dico ai più giovani: non spaventatevi, quelli che trovate a fianco delle vostre poltrone si chiamavano posacenere”.
Siamo in effetti nella sala dove stava il pubblico (giornalisti, parenti degli astronauti) durante le missioni. C’è anche una cabina del telefono. “A proposito di telefoni, quelli che avete in tasca hanno una capacità di calcolo superiore ai computer che governavano le missioni Apollo. E quei computer IBM occupavano tutto il piano terra di questo stabile”.
Esiste ovviamente una sala Controllo Missione in uso (per la verità, quella originaria è stata dismessa negli anni ’90), ma in questi giorni non è possibile visitarla.
La sala Controllo Missione è al centro del blue tour, che si fa con una sorta di bus, che loro chiamano tram impropriamente, visto che non si muove su rotaia. Ci sono altri 2 tour: quello rosso (che porta alla zona di allenamento degli astronauti, che si vede dall’alto) e il white tour (che permette di conoscere qualcosa in più della missione Orion e che non ho fatto).  Ognuno dei  tramtour si apre con una voce registrata che vi informa del fatto che “questa non è una mostra e nemmeno un parco a tema, è la cosa vera” e si chiude con un momento di raccoglimento in memoria di chi è caduto per aiutare l’umanità a inseguire il sogno dell’esplorazione dello spazio. Ci sono anche parole stranamente intelligenti di George W. Bush: “Esplorare lo spazio è un rischio e chi si impegna in queste missioni lo sa, ma bisogna andare avanti”. Il tutto si svolge in un bosco, nel quale pascolano i cervi, che ha visto nascere piante dedicate ai caduti.

Tutti i tram tour portano a Rocket Center, dove l’attrazione principale è un prototipo di Saturn Five, il missile che ha portato tutte le missioni Apollo sulla Luna.
A ideare Saturn Five fu Wernher Von Braun, il geniale scienziato tedesco. Nato nel 1912 in una parte della Prussia che oggi fa parte della Polonia, Von Braun aveva mostrato molto precocemente un certo interesse per la missilistica, appassionandosi alle teorie dello scienziato austriaco (nato, sia detto per curiosità, a Bolzano) Max Valier. Su Wikipedia leggo che a 12 anni aveva cercato di trasformare in missile un vagone giocattolo con l’uso di fuochi d’artificio. I danni che creò invitarono la polizia a trattenerlo fino all’arrivo dei genitori.
Mentre studiava all’Università Tecnica di Berlino collaborò agli studi sulla missilistica del Fisico Hermann Obert. Stava completando il suo Dottorato quando Hitler arrivò al potete e i suoi studi sulla missilistica vennero ritenuti molto rilevanti dal partito Nazional Socialista, che li finanziò.
Fu una scelta lungimirante, perché Von Braun e la sua squadra arrivarono a concepire i missili V2 (V sta per Verstellungswaffe, arma di rappresaglia). Vennero lanciati per la prima volta nel 1944 e avevano una gittata tale da poter concedere alla Germania un vantaggio notevole. Per fortuna dell’umanità, Hitler (o i suoi più autorevoli consiglieri, come il Ministro della Propaganda Joseph Goebbels) non credeva alla possibilità di realizzare armi nucleari. A immaginare cosa avrebbe potuto ottenere la Germania con una testata nucleare impiantata su un missile V2, certo vengono i brividi anche oggi.
Alla fine della guerra Von Braun si consegnò agli americani, che prima lo impiegarono nella segretissima operazione Paperclip (il reclutamento dei migliori scienziati nazisti, per evitare che le loro scoperte finissero in mano ai sovietici) e poi lo misero a lavorare per il settore missilistico dell’Esercito. A quel punto, l’uso che aveva fatto Von Braun dei prigionieri, impiegati in turni di lavoro disumani per costruire le V2, era stato dimenticato dal Governo americano.
Inizialmente i progetti di Von Braun vennero ostacolati da studi paralleli della Marina (progetto Vanguard). Il missile Redstone (si vede anche lui a Rocket Center) sarebbe stato pronto molto prima che Jupiter C (una sua versione modificata) portasse Alan Shepard in orbita nel 1961 a bordo della navicella Freedom 7 nell’ambito del programma Mercury. Da quel momento a Von Braun venne data carta bianca e si può quindi dire che la NASA sia nata con lui.

Guardate come sembro piccolo vicino a Saturn Five

Saturn Five è una cosa enorme: oltre 100 metri di altezza e 10 di diametro. Sostiene il giornalista scientifico Stephen Petranek (autore del libretto How we’ll live on Mars, da cui è stata tratta la serie del National Geographic  di cui ho parlato su questo sito a dicembre) che è anche “esagerato” per lo scopo che aveva, ovvero portare l’uomo sulla Luna: “Von Braun pensava già a Marte”.
In effetti, Wernher Von Braun aveva detto nell’agosto del 1969 al Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon di essere in grado di progettare una missione per portare l’uomo su Marte entro il 1982 al costo di “una normale operazione in un teatro di guerra secondario”. Von Braun aveva tutto chiaro in mente da quando scrisse in Tedesco Das Marsprojekt nel 1949.
Come è noto, dopo la cancellazione del programma Apollo, Nixon decise di rigettare la proposta di Von Braun e sviluppare in alternativa il progetto Space Shuttle, un veicolo spaziale riutilizzabile.
Von Braun lasciò la NASA sbattendo la porta nel 1972. Subito dopo si ammalò e morì nel 1977.

Una riproduzione (nel senso che non ha mai volato) dello Shuttle chiamata Independence è uno dei pezzi forti della visita allo Space Center, dove è stata trasferita da Cape Canaveral (oggi lo spazioporto ospita lo Shuttle Atlantis). La nave spaziale è montata sopra il Boeing 747 (questo è invece l’originale) che la NASA usava per riportare lo Shuttle dal luogo d’atterraggio a Cape Canaveral. Un video mostra come qualcuno alla NASA si fece venire in mente di montare lo Shuttle sopra un aereo, con tanto di esperimenti con modellini dei 2 velivoli allo scopo di mostrare agli scettici come potesse davvero funzionare. Inutile dire che il tour di Independence è qualcosa che non si scorda.
Lo Shuttle ha volato per l’ultima volta nel 2011 ed è oggi visto come un progetto fallito e che è costato 14 vite umane. Oltre a Independence, ne sono stati costruiti 6: Enterprise nel 1977 (così chiamato in onore dell’astronave di Star Trek, fu usato usato solo per i test e si può vedere a New York), Columbia nel 1981 (andrà distrutto nel 2003, decretando di fatto la fine del progetto), Challenger nel 1983 (andrà distrutto nel 1986 per un problema della coibentazione anti calore), Discovery nel 1984 (è in esposizione a Washington), Atlantis nel 1985 (ha sostituito Independence al Kennedy Space Center; è stato l’ultimo ad andare in orbita) ed Endavour nel 1991 (doveva rimpiazzare Challenger, dovrebbe essere messo in esposizione in Canada. La costruzione di ogni Shuttle ha comportato un costo attualizzabile in 190 miliardi di dollari di oggi, quindi per ogni Shuttle si è speso più che per l’intero programma Apollo. Per la cronaca, il bilancio per la difesa statunitense supera abbondantemente i 400 miliardi.
L’opinione pubblica americana è stata convinta del fatto che la NASA abbia sorbito parti molto rilevanti del budget federale. In verità, solo negli anni del progetto Apollo è arrivata a superare il 4%. Il Congresso ha comunque sempre avvertito questo tipo di ostilità. Anche l’Amministrazione Obama ha trovato ostacoli insormontabili e il suo programma per la costruzione di una nuova generazione di veicoli spaziali (Constellation) è stato di fatto rinviato al 2020. Per implementarlo, ci sarà bisogno del contributo dei privati come Elon Musk.

Il resto della visita è quella a un museo moderno, interattivo (grazie anche alle consuete audio guide) e molto ben fatto.
Ad Astronaut Gallery ho definitivamente archiviato il mio rammarico per non aver fatto l’astronauta. Le mie dimensioni non si adattano assolutamente a quelle delle navicelle spaziali. Senza contare che non avrei mai avuto la salute mentale per condividere uno spazio così piccolo con altre persone.
In compenso, ho potuto però eleggere a mio nuovo idolo il Capitano Walter Schirra (19232007), sia per una certa simpatia verso il cognome che per la provenienza dei nonni: Canton Ticino in Svizzera.
Diplomato pilota durante la seconda Guerra Mondiale, arrivò in zona di combattimento solo dopo che era stato firmato l’armistizio. Partecipò invece alla operazioni militari in Corea (19501953) e venne scelto dalla NASA per il programma Mercury.  Venne scelto anche per il programma Gemini e andò in orbita nel 1965, pilotando con successo la prima operazione di aggancio di un veicolo spaziale a un satellite. Fece anche parte del programma Apollo. Per sua fortuna, era solo riserva della tragica missione Apollo 1 (gli astronauti morirono per un incendio durante una esercitazione a terra) e poi volò (11 giorni di orbita) con Apollo 7, effettuando un altro aggancio nello spazio. Uscito dalla NASA nel 1969, fondò la Schirra Enterprises nel 1979. Dopo la sua morte, nel 2009 gli ha intitolato una nave della classe Lewis & Clarck. Queste navi portano i nomi di celebri esploratori.

Walter Schirra con il figlio Walter Terzo dopo una missione (www.collectspace.com)

Durante la visita consiglio di saltare i simulatori di volo (ce ne sono di uguali a Gardaland), ma di non perdere i filmati del Destiny Theater e del Blast Off Theater: sono decisamente emozionanti.
E’ ovviamente imperdibile Starship Gallery, dove potrete vedere le riproduzioni di vari manufatti, tra cui i moduli lunari e i rover usati dalle missioni Apollo. La sezione su Marte invece è ancora in via di allestimento.
Siamo in America, quindi non mancano negozi di souvenir e un fornitissimo food court con varie soluzioni per i vostri spuntini.

Esco dalla NASA pensando che alla missione Orion (la nuovissima navicella, studiata durante il programma Constellation di cui dicevo), che dovrebbe riportare l’uomo sulla Luna e poi portarlo addirittura su Marte. Il tutto negli anni ’20 di questo secolo. Penso che speriamo di esserci, quando accadrà e che per allora abbiano assegnato il premio messo in palo per il concorso che deve trovare una soluzione a come smaltire gli escrementi degli astronauti, nel caso si trovino nella non augurabile situazione di evacuare mentre indossano la tuta.
Penso anche che a Orion contribuisce anche l’ESA (European Space Agency). E che è bello vedere la bandiera italiana sui modelli di navicella che dovrebbero portarci verso una nuova era dell’esplorazione spaziale.

L’articolo di domani parla di come si è chiuso il mio 2016 e di come si è aperto il 2017, tra Houston e Galveston.

12-CONTINUA