World Baseball Classic 2013: le ultime cartoline

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Nel giorno in cui inizia l’edizione 2017, io vi propongo le ultime Cartoline dal World Baseball Classic 2013.
La prima è stata scritta dall’aeroporto di San Francisco. Pubblicandola, l’ho ripulita dagli apostrofi al posto degli accenti a cui mi aveva costretto un’ostica tastiera americana.
Rileggendomi, mi è venuto da sorridere per come descrivo i miei dopo partita in solitudine a San Francisco.

21 marzo Turista piuttosto per caso

Della serie che la perfezione non è di questo mondo, oggi pioveva. Mi ero organizzato tutto perché il mio unico giorno libero del World Baseball Classic fosse perfetto: sveglia libera, colazione da fare dove capitava, pranzo possibilmente a base di carne (magari con un bicchiere di vino rosso…) e poi via verso il centro di San Francisco e il cosiddetto Fisherman Wharf, da dove si vede Alcatraz.

Pioveva, ma ho pensato chissenefrega,
Ero ancora euforico dal mio hamburger mangiato in solitudine dopo la finale. Probabilmente Rafi Colon, lo psicologo che dal 2010 lavora con gli azzurri, si divertirebbe a studiare questa reazione abbastanza folle che ho. Voglio dire: seguo la partita, scrivo i miei vari articoli (intendo quelli di cronaca e commento sul torneo che ho pubblicato sul sito FIBS: 24 primi piani e 67 news per un totale, incluse le 10 Cartoline, di 101 articoli), impacchetto la roba e sono stanco. Poi vado dal mio esercente coreano preferito, mi faccio fare un panino, lui mi tratta moderatamente male e io torno in camera euforico. Ma è una cosa ben strana…

 Ci si può anche non credere, ma San Francisco è una città relativamente piccola. Dal mio hotel basta percorrere la Quinta strada fino a Market (la via principale del centro), voltare a destra (resistendo alla tentazione di entrare nei vari negozi traditori tipo Oakley, Puma, Clark…) e camminare mezz’ora fin che si vede il Golden Gate. Si arriva così alla zona che rappresenta l’attrattiva turistica principale di San Francisco, da dove si parte per fare le varie gite: sotto il ponte, a vedere le balene (la prossima parte venerdì, ma sarò ormai in Valle Padana…) o verso Alcatraz.

La mia macchina fotografica il 21 marzo 2013 vedeva Alcatraz così

“Se infrangi le regole della vita vai in prigione, se infrangi le regole della prigione vai ad Alcatraz”, recita una citazione anonima.
L’isola di Alcatraz si chiama così perché gli spagnoli la definirono La isla de los Alcatraces, ovvero degli uccelli marini. Il penitenziario che sorgeva sull’isola è passato alla storia per la durezza delle regole che vigevano al suo interno. Ad Alcatraz venne rinchiuso Al Capone, che lì si ammalò e non tornò mai più alla piena efficienza fisica. Naturalmente, su Alcatraz venne anche realizzato un film (Fuga da Alcatraz, appunto).
Il 21 marzo sono esattamente 50 anni da quando gli ultimi prigionieri (27 uomini piuttosto pallidi, scriveva il San Francisco Chronicle del 1963) abbandonarono, a capo chino, l’isola.
Oggi il Chronicle intervista un certo Jim Albright, un secondino che ricorda con tristezza di aver dovuto abbandonare il carcere: Ricordo con piacere i 4 anni che ho passato ad Alcatraz è il suo commento.
Mah, è il mio.

Come a New York, anche a San Francisco il quartiere Italiano confina con Chinatown.
È un quartiere italiano un po’ particolare, North Beach. In primo luogo, perché si chiama North Beach e non ha una spiaggia. E poi perché ostenta una italianità orgogliosa, nei nomi delle strade (Columbus è definita, da diversi cartelli, Corso Cristoforo Colombo), nelle insegne dei negozi, nei cartelli delle marche preferite da noi di caffè (Lavazza, Illy…). Ma gli Italiani non si sa dove sono, visto che il personale di ristoranti e bar tricolori è quasi interamente latino americano.

Io sono andato in Pellegrinaggio alla Chiesa di San Pietro e Paolo, dove si è svolto il funerale di Joe Di Maggio. Lì vicino c’è uno di quei cortili che gli americani chiamano PlayGround e che ha i canestri da basket e anche una casa base. Dice la leggenda che Joe Di Maggio ha iniziato a giocare proprio lì. Mi immagino il papà di Joe, che veniva da Isola delle Femmine, faceva già fatica a parlare l’Italiano (di sicuro, non lo sapeva scrivere, probabilmente nemmeno leggere), voleva che suo figlio Giuseppe Paolo facesse il pescatore come lui (non tanto per vocazione, ma perché i soldi non bastavano mai, per mantenere 6 figli e sua moglie Rosalia; ma il giovane Joe soffriva di mal di mare…) e lo vedeva perdere tempo con quel gioco strano e abbastanza noioso, dal suo punto di vista.
Ho pensato che oggi noi Italiani veniamo qui negli Stati Uniti per lavoro, facciamo shopping liberamente perché la valuta che abbiamo in tasca vale più del; dollaro. E facciamo finta di non ricordarcelo, ma in moltissime famiglie c’è un nonno che in America è dovuto andare in nave, senza sapere quanto ci avrebbe messo, senza avere idea della lingua che si parlava là e magari perché gli avevano fatto credere che in America i soldi crescevano sugli alberi.

“Non è questa l’ultima Cartolina. Come è tradizione, ne invierò una non appena sarò a destinazione. Quella che, di solito, tende a essere malinconica“. Così avevo concluso l’articolo apparso sul sito FIBS poco prima che io decollassi da San Francisco. Questo bilancio lo avevo invece scritto una volta arrivato in Italia. Credo sia stato la prima cosa che ho fatto dopo essermi alzato, incurante del jetlag

La colonia di leoni marini che soggiorna allo storico Molo 39 di San Francisco

23 marzo- Diciamolo, è stato bellissimo

Prima di tutto: è stato bellissimo.
L’esperienza del World Baseball Classic 2013 è stata davvero il massimo a cui mi sia capitato di partecipare da quando seguo eventi sportivi. Per tutta una serie di motivi, non ultimo (e piuttosto ovviamente) il risultato della nostra nazionale. Che, curiosamente, scende nel ranking IBAF dopo questa prestazione. Ma sono dettagli.

La mia ultima Cartolina non sarà quindi malinconica, bensì piuttosto carica.
Iniziamo da questa considerazione: quando si arriva al massimo, è difficile non iniziare a scendere. E io credo che, con questo Classic, il progetto che Marco Mazzieri ha portato avanti con successo crescente e incontestabile (2 titoli europei, una medaglia di bronzo all’Intercontinentale, la qualificazione tra le prime 8 del Classic) sia arrivato al massimo.
Non voglio parlare in questa sede di programmi tecnici, un po’ perché non sono nella posizione di anticipare decisioni di altri e anche perché non voglio dare l’impressione di tentare di influenzarle. Quel che mi preme sottolineare è che di questo risultato bisogna gioire, ma sapere fin da subito che non è che possiamo cristallizzare gli eventi. Voglio dire: arriveranno giorni peggiori, i protagonisti di questi splendidi anni fatalmente usciranno dal giro della nazionale e nessuno di noi (mi ci metto tranquillamente anch’io) si rivelerà eterno. E’ così che va il mondo.
Se abbiamo veramente vinto, lo dimostreremo riuscendo a non fermarci.

E adesso parliamo anche di qualche aspetto negativo.
Gli americani con il Classic hanno fatto una gran cosa, ma non mi è chiaro perchè il loro atteggiamento, è sempre stato così negli ultimi 70 anni, sia quello di chi manda i soldati a distribuire chewingum, sigarette e cioccolata a chi non ne ha. L’organizzazione non fa difetto, negli Stati Uniti. Dove però a volte finisce con il mettere in secondo piano il buon senso. A me è capitato di dover dare il numero della mia carta di credito alla stessa persona non meno di 10 volte, perchè gli dicevano “chiedi il numero della carta di credito” e la persona in questione non aveva il coraggio di dire che me lo aveva già chiesto (anticipando una domanda ovvia, che gli sarebbe stata fatta di certo, visto che non si può rischiare che ciascun membro di una delegazione di 45 persone lasci il conto del frigo bar da pagare; ma questo è buon senso, non buona organizzazione…) e quindi lo aveva già.
Sul media guide del Classic appare che l’Italia ha vinto l’Europeo 2010 e 2012, ma non che ha vinto nel 1954, ’75, 77, ’79, ’83, ’89, ’91, ’97. Perché? Prima del 2006 il World Baseball Classic non c’era. Quindi…

Ho già scritto in un’altra Cartolina che io amo gli Stati Uniti. E in un’altra ancora che gli Stati Uniti mi danno l’immagine di quel che l’Italia sta diventando. Amo anche l’Italia, è naturale. E per questo sono preoccupato. Perché se diventiamo come gli Stati Uniti, dobbiamo mettere anche in conto un’ ignoranza tragica che deriva da un sistema scolastico gestito con criteri turbo capitalisti (quindi: i più tonti, si arrangino).
Sia chiaro, siamo un passo avanti già da soli: un ex Presidente del Consiglio cade nel luogo comune che Il Fascismo ha fatto anche cose buone. Lasciamo perdere il dettaglio che lo dice nel giorno Della Memoria, il giorno in cui si vuole commemorare l’eccidio degli Ebrei, e che il Fascismo ha istituito Leggi Razziali. Sarebbe troppo facile argomentare così. Meditiamo invece sul fatto che a noi queste cose ce le insegnano a scuola, da generazioni. I Fascisti erano meno cattivi dei Nazisti, gli Unni erano Tedeschi o forse Svedesi, nella Seconda Guerra Mondiale per un po’ eravamo da una parte e poi siamo passati dall’altra…ma succede, noi quando colonizzavamo i negri li trattavamo bene, gli Italiani quando emigravano lo facevano allegramente, mica come gli albanesi oggi.
Ma con tutti i nostri limiti, anche l’Italiano più ignorante non potrebbe fare la domanda che mi ha fatto un inserviente dello stadio di San Francisco: “Ma in Italia, che lingua si parla?”.
Non l’ho potuta insultare, perché stava ripulendo un danno incalcolabile fatto da me. E invece di mandarmi a quel paese sorrideva e diceva “It’s OK”.
Guardando il boccione di dolci che avevo mandato in frantumi, con tutti i dolci sparsi ovunque, in parte incastrati dove sarebbe stato difficile recuperarli, con un filo di voce ho detto: “It’s not OK, but”…

La cultura popolare americana è straordinaria. Le Fiction televisive a volte sono veri e proprio trattati di sociologia. Ma noi non vogliamo diventare una società organizzata sui meccanismi della Fiction e che insegna una storia modellata da Hollywood, giusto? Quella storia che ha fatto diventare eroi nazionali una banda di ubriaconi e schiavisti che volevano la secessione del Texas dal Messico perché il Messico aveva abolito la schiavitù e sono stati così furbi da farsi assediare in una missione dalla quale non potevano uscire. Ce la ricordiamo (soprattutto grazie ai film) come battaglia di Alamo. E David Crockett è passato alla storia, col suo copricapo con la coda di castoro (in verità, era procione) che dubito indossasse in Texas, come un ingenuo eroe senza macchia, ma in verità era un deputato in protesta perché nessuno lo voleva candidare più e cercava pubblicità. (Sulla figura di Davy Crockett ho scritto recentemente per questo sito un articolo molto più preciso e dettagliato).
E la Guerra Civile (tutti da bambini abbiamo giocato a nordisti contro sudisti) non è un’epopea, ma una tragedia.
E Al Capone era americano, mica Italiano. Non lo parlava neanche, l’Italiano.
E se gli Stati Uniti danno la cittadinanza a chi nasce negli Stati Uniti, è possibile che ci siano altri paesi che la danno a chi nasce anche fuori, ma è figlio di cittadini di quel paese.

Frequentando il World Baseball Classic mi è chiaro questo punto: quando l’organizzazione americana scade nella mancanza di buon senso e nella piattezza di idee, meno male che c’è il creativo casino che facciamo noi Italiani a correggerla un po’.

5-FINE

Da domani inizierò a scrivere di questa edizione del World Baseball Classic, per la quale mi focalizzerò inizialmente sull’Italia. Non essendo sul posto, dovrò scegliere che taglio dare ai miei articoli. Di certo, non sarà quello del cronista. Il primo articolo conterrà ancora riferimenti alle edizioni precedenti e al lavoro che avevo svolto per la FIBS.