Parliamo di deontologia

La formazione continua dei giornalisti, MULTI MEDIA, SCHIROPENSIERO

Apro oggi la sezione del sito che prende spunto dall’attività di formazione continua che è diventata obbligatoria per i giornalisti.
Questo articolo è dedicato a Bren Bradlee, che ci ha lasciati il 21 ottobre. Aveva 93 anni ed è un punto di riferimento per chiunque abbia solo pensato di fare il giornalista. Era il direttore del Washington Post all’epoca del Watergate.

Dei crediti da formazione continua (60) che i giornalisti devono accumulare in un triennio secondo una Legge del 2011, un quarto deve arrivare dalla formazione sulla deontologia.
La deontologia è una roba seria. Schopenhauer cercò di demolire (direi invano) il pensiero di Kant, su questo punto. Nel secolo diciannovesimo si discuteva parecchio su quanto la morale cristiana dovesse influire sull’attività dell’uomo. Più modestamente, noi possiamo definire deontologia quel codice morale e comportamentale che presiede a un’attività professionale.

Ben Bradlee, 1921-2014 (Washington Post-Getty Images)
Ben Bradlee, 1921-2014 (Washington Post-Getty Images)

Vi vedo già: ma cosa vuoi che abbiano un codice morale e comportamentale, i giornalisti.
Non è che io sia convintissimo del fatto che tutti i giornalisti abbiano un’etica: in Italia siamo oltre 100.000, sarebbe anche impossibile conoscerli tutti. Ma, indipendentemente da questo, ho ultimamente parecchi dubbi. Nel 2012 mi sono scontrato con la testata Baseball.it proprio su questioni di deontologia ed etica e, a compendio dell’Europeo di baseball 2014, ho pubblicato qui la mia sulle differenze tra cronaca, commento o analisi e sulla linea editoriale.
Il fatto è che per fare il giornalista bisogna prima di tutto avere chiaro un concetto: un giornalista deve cercare di raccontare la verità. E’ a tal punto vero che, se non ci riesce, ha l’obbligo di rettificare (Legge sulla Stampa, 1948) quel che ha scritto. Ma delle norme di legge parleremo tra un attimo. Basti aggiungere che ogni giornalista deve rigorosamente tenere separato il commento (come la pensa lui) dalla cronaca (l’esposizione dei fatti come li ha potuti testimoniare).

Tutti i giornalisti o quasi hanno iniziato il percorso di formazione continua con il corso on line sulla deontologia. Si tratta di un utilissimo compendio di tutte le norme che di solito studiano per superare l’esame professionale, ma poi mettiamo in un cassetto “che tanto son noiose”. Si tratta di 4 lezioni, ciascuna corredata da un test che è necessario (e non scontato, anche se si risponde alle domande con i documenti sotto mano) superare per passare alla lezione successiva.
Non voglio rifare il corso, ma è bene ricordare alcune cose. Il concetto della libertà di stampa è più antico della già citata Legge sulla Stampa, visto che è stato introdotto addirittura nel secolo diciannovesimo. Lo Statuto Albertino dice che la libertà di stampa è necessaria guarentigia di ogni ben ordinato Governo rappresentativo. Coetanea della Legge sulla Stampa è la Costituzione della Repubblica Italiana, il cui articolo 21 dovrebbe essere mandato a memoria da ogni giornalista, almeno i primi commi: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Il concetto verrà confermato, pochi anni dopo, dall’articolo 10 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.
La Legge che istituisce l’Ordine dei Giornalisti (1963) recita all’articolo 2: È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori.
Insomma: qualsiasi giornalista attivo oggi ha iniziato a lavorare sapendo benissimo di dover raccontare la verità, rispettare la legge e gli altri e rettificare gli eventuali errori.

Una ventina d’anni dopo (1984) l’istituzione dell’Ordine dei Giornalisti, la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza (la 5259) che è uno dei capisaldi della nostra professione, tanto che si chiama sentenza decalogo. E chiarisce che: la verità non è più tale se è mezza verità; la critica non è civile se difetta di serenità e di obiettività o calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto.
Dagli anni ’90 dello scorso secolo le cosiddette Carte sulla deontologia hanno proliferato, soprattutto allo scopo di tutelare i soggetti deboli. Si è iniziato con la Carta di Treviso sui minori (1990; l’Ordine ha partorito un vademecum nel 1995, poi ne è arrivata una integrazione nel 2006 alla luce del Codice di Autoregolamentazione su TV e minori del 2005), la Carta su informazione e sondaggi (1995), il Codice Deontologico sul trattamento dei dati personali (1998), la Carta di Perugia su informazione e malattia, la Carta dei Doveri dei giornalisti degli uffici stampa pubblici (2002), la Carta dei Doveri del giornalista di economia (2007), la Carta di Roma sui diritti dei migranti (2008), il Decalogo del giornalista sportivo (del 2009, in seguito al Codice di Autoregolamentazione delle trasmissioni sportive del 2008), il Codice sulla rappresentazione delle vicende giudiziarie nelle trasmissioni televisive (2009), la Carta di Firenze sulla precarietà del lavoro giornalistico (2011), la Carta di Milano per i giornalisti che trattano notizie su carceri e carcerati (2013),
Del 1993 è la Carta dei Doveri del Giornalista, che ho tenuto per ultima perché mette in evidenza un concetto che a me è molto caro: La responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra.
Quella sulla par condicio (2000) è invece proprio una Legge dello Stato.
In ogni caso, le regole contenute nelle varie Carte e nei Codici sono cogenti per i giornalisti. Le violazioni danno origine a sanzioni e l’estrema conseguenza è la radiazione dall’Ordine. Che non è una roba da poco, visto che l’esercizio abusivo della professione (cioè, fare i giornalisti se non si è iscritti all’Ordine) è punito dall’articolo 348 del Codice Penale.
L’8 di novembre ho frequentato a Vigevano un seminario su questi temi. Mi ha molto colpito Mario Giarda, ex giornalista del Corriere della Sera. Il suo intervento è stato improntato a un sano realismo, che lo ha portato a mettere in chiaro che spesso i principi bellissimi contenuti nelle Carte tendono a scontrarsi con la realtà nella quale operiamo.
Posso testimoniare direttamente al riguardo. La Carta dei Doveri dei giornalisti degli Uffici Stampa pubblici dice che gli addetti stampa non devono far confliggere il dovere di informare con le esigenze di una informazione personalistica e subordinata all’immagine e devono operare per la piena trasparenza dell’attività. Inoltre, gli addetti stampa hanno trai proprio doveri d’ufficio quello di difendere la propria autonomia e la propria credibilità professionale.
Si potrebbe discutere sul fatto che una Federazione Nazionale sia ente pubblico, ma sarebbe un tecnicismo. Va da sé invece che non è che io o un mio collega possiamo riportare a cuor leggero una lite avvenuta in Consiglio Federale. Questo è buon senso. Prendiamo un caso meno sensibile. Se una nazionale perde perché ha giocato male, dobbiamo scriverlo (con conseguenti sguardi torvi di allenatori e giocatori, che pensano che proprio tu, che sei uno dei nostri…) o far finta di nulla? Io una risposta ce l’ho e penso che la si possa arguire da come lavoro. Però sia chiaro: comunque facciate, qualcuno vi insulterà…

Una cosa molto bella che Giarda ha detto, viene più dal cuore che dalle Carte. Di qualsiasi cosa un giornalista di occupi, non deve mai dimenticare la pietas (letteralmente: il sentimento che induce l’uomo a rispettare il prossimo) e conservare la capacità di indignarsi.
Sabato 8 novembre credo anche che sia stato sottolineato tutto quello che bisogna sapere prima di avventurarsi nei principi enunciati nelle Carte: le notizie vanno verificate. Questo è vero qualunque sia la fonte: un testimone, un sito internet, i post su Facebook e Twitter. Tanto per dire: ai dipendenti di Associated Press (importantissima agenzia di stampa che opera in tutto il mondo e che si autodefinisce una fonte di notizie priva di pregiudizi) è distribuito un manualetto nel quale si legge che: “Se usate come fonte la pagina ufficiale Facebook o Twitter di un’azienda, organizzazione o agenzia governativa, chiedete direttamente conferma chiamando la sede (…) Non prendete direttamente dichiarazioni o foto da un social network, ma chiedete conferma all’interessato prima di utilizzarle”.
Un giornalista fa comunicazione, ma non è necessariamente vero che chiunque fa comunicazione sia un giornalista. Se diciamo che un detersivo lava bianco, che più bianco non si può certamente facciamo comunicazione. Ma questo tipo di slogan pubblicitari è definito dolus bonus. Quindi, non prova nemmeno a dire la verità.

Siamo tornati all’articolo 2 della Legge che istituisce l’Ordine dei Giornalisti: dobbiamo rispettare la verità sostanziale dei fatti.
Ho dedicato questo articolo a Ben Bradlee, il grande direttore del Washington Post sotto la cui guida Carl Bernstein e Bob Woodward vinsero nel 1972 il Premio Pulitzer per il celebre caso Watergate.
Bernstein e Woodward definiscono Bradlee “l’essenza stessa del giornalismo” in un articolo con il quale hanno celebrato (tornando straordinariamente a scrivere assieme) la sua persona sul Washington Post e che l’agenzia ADN Kronos ha distribuito ai media italiani.
Interrogato sulla crisi dell’editoria, nel 2008 Bradlee disse: “Sono davvero sconcertato. Non posso immaginare un mondo senza giornali. Non ci riesco. Posso immaginare un mondo con meno giornali. Posso immaginare un mondo in cui i giornali si stampano e si distribuiscono in maniera diversa, ma la professione dei giornalisti continuerà a esistere e il loro scopo continuerà a essere quello di riferire ciò che ritengono essere la verità. Questo non cambierà”.
Bradlee aveva detto alla moglie poco tempo prima di morire in un’intervista (Sally Quinn, di 20 anni più giovane, tiene un blog proprio sul Washington Post): “Vorrei lasciare una testimonianza di onestà e vivere una vita quanto più mi sia possibile vicina alla verità”.

Al seminario di Vigevano l’ultimo relatore è stato il professor Giuseppe Vico, ex Ordinario di Pedagogia Generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano.  Non è un giornalista, quindi è particolarmente significativo che si sia sentito in dovere di ricordare le parole con cui Immanuel Kant chiude la Critica della Ragion Pratica e che si trovano incise sulla lapide del filosofo tedesco: “Due cose riempiono la mente con sempre nuova e crescente ammirazione e rispetto, tanto più spesso e con costanza la riflessione si sofferma su di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.

Io vi lascio con un’ultima frase di Bradlee: “Testa bassa, muovi il culo e poi dritto a passo deciso verso il futuro”.